
Norme distorte, potere senza merito, tasse nemiche. E il pallone smette di rotolare
Giugno 2025. La Nazionale italiana è sprofondata in una crisi profonda. Dopo aver mancato la qualificazione agli ultimi due Mondiali, ha collezionato un Europeo fallimentare e ora rischia seriamente di restare fuori anche dal torneo del 2026. Non si tratta più di una battuta d’arresto, ma di un declino strutturale che riflette un sistema inadeguato e incapace di autoriformarsi. Nel frattempo, anche i club soffrono. L’Inter ha appena perso la sua seconda finale di Champions League in tre anni, questa volta contro il Paris Saint-Germain, dopo la sconfitta del 2023 contro il Manchester City. Il club nerazzurro ha dimostrato di mantenere un profilo internazionale competitivo, ma intorno a sé il vuoto si allarga. Le altre italiane escono presto dalle coppe, il ranking Uefa retrocede, e anche sul piano economico la Serie A arranca: ricavi stagnanti, investimenti bloccati, appeal internazionale in calo. La Finale di Europa League si gioca al San Mamés di Bilbao, in uno stadio moderno, efficiente, perfettamente gestito. Una vetrina europea che, per contrasto, mostra tutta la distanza che separa il calcio italiano dalle sue controparti più evolute. Nonostante ciò, si continua a rinviare ogni riforma seria, proteggendo l’esistente e sospettando di ogni proposta di cambiamento.
A monte di tutto vi è una contraddizione strutturale: le società calcistiche italiane non sono vere imprese. Ne hanno la forma giuridica, ma non la sostanza operativa. Sono soggette a regole pubbliche che ne limitano l’autonomia, sottoposte a decisioni politiche che ne condizionano l’attività, vincolate da normative urbanistiche, fiscali e federali che impediscono una gestione realmente imprenditoriale. Non possiedono però gli impianti in cui operano, non possono scegliere liberamente modelli organizzativi, né attrarre investitori senza dover negoziare con apparati pubblici ostili o diffidenti. Ogni tentativo di espansione o ristrutturazione incontra barriere normative, vincoli burocratici, pressioni di tipo corporativo. In tale contesto, la competitività internazionale è una battaglia in salita, perché a differenza dei concorrenti europei, i club in Italia devono fare impresa in un ambiente che scoraggia l’impresa stessa.
Le cause sono profonde e note. La prima riguarda gli impianti: vecchi, fatiscenti, spesso vuoti e quasi mai di proprietà dei club. Quella pubblica dei medesimi stadi ha reso impossibile ogni investimento serio e ogni forma di valorizzazione immobiliare. Chi vuole costruirne uno nuovo, come accade da anni a Roma, Firenze o Milano, si trova ostacolato da vincoli archeologici, ritardi amministrativi, opposizioni locali e conflitti tra enti. Il risultato è una paralisi che scoraggia imprenditori, impedisce progettualità a lungo termine e toglie margini economici decisivi. In altri Paesi, lo stadio è centro nevralgico della vita sportiva, commerciale e culturale della città. In Italia è spesso un contenitore vuoto, simbolo di immobilismo istituzionale e urbano.
A ciò si aggiunge la fragilità del modello economico. Da noi i club dipendono in larga parte dai diritti televisivi, spesso per oltre il 60 per cento del bilancio. Quando questi calano, come accade negli ultimi anni, l’intero sistema vacilla. Le altre fonti di entrata – come ticketing, merchandising, marketing territoriale – restano sottosviluppate. Mancano strumenti, strutture e soprattutto libertà d’azione. Il risultato è che molte società sopravvivono grazie a operazioni contabili e plusvalenze artificiali, più che a strategie industriali. Invece di creare valore, lo si simula. E quando anche il fisco interviene in senso punitivo, imponendo aliquote elevate, regole incerte e norme che cambiano a seconda dell’umore politico, attrarre talenti e capitali diventa quasi impossibile. La flat tax che aveva attirato qualche nome internazionale è stata ridotta e attaccata con argomenti ideologici, come se l’efficienza fosse un vizio.
Il terzo nodo è istituzionale. Le federazioni e le leghe sono dominate da un consociativismo paralizzante, in cui le società meno performanti contano quanto quelle che generano valore. Le regole vengono costruite non per migliorare il sistema, ma per evitare conflitti interni. Chi vuole innovare si scontra con un muro di veti e interessi incrociati. Ogni proposta di riforma – riduzione delle squadre professionistiche, apertura alle seconde squadre, ridefinizione dei criteri di accesso alle competizioni – viene respinta o svuotata. Nel frattempo, la giustizia sportiva, lenta e incoerente, interviene a campionato in corso, modificando classifiche e scenari a giochi fatti. Un sistema che pretende di attrarre investimenti, ma non offre certezza né stabilità. E tutto ciò avviene con l’assenso silenzioso di una classe dirigente più interessata a mediare che a costruire.
Eppure, il calcio italiano non è morto. Al contrario, conserva risorse straordinarie: una base di tifo ampia e radicata, un’enorme rete di scuole calcio, tecnici preparati, una storia gloriosa. Ma tutto questo rischia di restare inespresso, soffocato da un sistema che teme il cambiamento. Perché queste potenzialità si traducano in risultati, occorre un deciso cambio di prospettiva: bisogna riconoscere l’impresa calcistica per ciò che è: un soggetto economico a pieno titolo, capace di creare valore se liberato da lacci e sospetti.
In tale ottica, non vi è alcun dubbio che la prima riforma imprescindibile riguardi gli stadi. Essi devono essere sottratti alla morsa pubblica e restituiti alla piena responsabilità dei club, che devono poterli costruire, possedere, gestire e valorizzare. Nessuna impresa può prosperare se non dispone dei luoghi di lavoro e non controlla i propri strumenti di produzione. Servono procedure snelle, regole trasparenti, tempi certi. La seconda riforma deve invece intervenire sulla governance: il peso elettorale delle società va commisurato al valore generato. Chi investe, rischia e produce risultati non può essere ostaggio di chi vive di conservazione. Una terza riforma, non meno importante, è fiscale: un quadro normativo stabile, competitivo e aperto agli investimenti è la condizione minima per attrarre capitali e trattenere talenti. Senza certezze fiscali, ogni progetto diventa precario. La quarta riforma, infine, è culturale: occorre smantellare i vincoli che soffocano la differenziazione. Dai limiti sui tesseramenti agli ostacoli normativi contro le seconde squadre, ogni club deve poter scegliere il proprio modello organizzativo, formativo e commerciale.
In conclusione, il calcio italiano non ha bisogno di protezioni, ma di libertà. Non servono commissari straordinari, nuovi carrozzoni o piani centralizzati. Servono regole chiare, ostacoli ridotti al minimo e spazio per l’iniziativa. Dove si protegge la rendita, si soffoca il merito. Dove si teme la concorrenza, si produce mediocrità. Ma dove si lascia agire chi ha visione e coraggio, tornano qualità, entusiasmo e risultati. Il futuro del nostro calcio non si gioca in una singola finale vinta o persa: si gioca sulla capacità di aprire un sistema chiuso, trasformandolo in un ambiente dinamico, competitivo e responsabile. È questa la vera sfida. E il tempo per restare in panchina è finito.
Aggiornato il 09 giugno 2025 alle ore 11:05