
Le persone in condizioni di stare ferme ore sono quelle che attivano grandi viaggi, scalare montagne, volare, anche o soprattutto rendersi soggetti di moti corporei, è una forma artistica, immaginaria, pensare quel che non si vive vivendolo nel pensiero. Suppongo da questa contrapposizione la (mia) attrazione volta ai personaggi dello sport. Molto piccolo, io e innumerevoli, eravamo dissennatamente tifosi, come si dice, del grande Torino, quando accadde la tragedia della morte dei giocatori. La nazione indossò lutto, io affogai la passione tranne qualche momento e qualche giocatore, infine del tutto ignorando il calcio. Rimasi appassionatissimo di automobilismo, motociclismo, ciclismo, pugilato. Seduto, “facevo” sport, con immedesimazione gioiosa o mesta secondo gli esiti (vale anche per la politica!). Juan Manuel Fangio era un ideale dell’io. Corse, vittorie, mi irradiavo, entravo nella radio a sentire cronaca, gesta, e quando vinceva ero felicissimo (ripeto, lo stesso in politica, l’immedesimazione, in musica e letteratura quasi idolatria).
Lo seguirono Niki Lauda, Ayrton Senna, Michael Schumacher, Lewis Hamilton. E poi, le moto: Giacomo Agostini, Valentino Rossi, fanciullesco, animato. Il ciclismo: Fausto Coppi; su tutti, Gino Bartali; un pochino Fiorenzo Magni, Louison Bobet, Jacques Anquetil; Eddy Merckx, quasi al pari di Coppi. Dicevo, dell’immedesimazione. È virtù eminentemente affermativa: noi nell’estraneo, l’estraneo in noi, il due si fa uno, ma nella dualità. Accrescimento, non perdita di sé, i tempi belli dell’entusiasmo, tempi degli eroi, dell’ammirare, dell’altro in te, senza perdere te. Scontri di pugilato, radio, dopo, visione. Notte, voce, Sugar Ray Robinson, nero. Poi lo vidi, non riuscivano a sfiorarlo, sempre qualche centimetro scostato, e l’avversario a innervosirsi, e Sugar composto, non beffardo come Cassius Clay (Muhammad Alì). Quest’ultimo spesso riceveva botte ma come fosse un muro, poi sgusciava, si allontanava, e scagliava colpi a braccio, storditivi, anche se non quelli dal pugno inferriato, pochi, da assonnare un ippopotamo.
E, ancora, ricordo: Roberto Durán, Mike Tyson, Carlos Monzón, e mi risorge Nino Benvenuti. La morte, adesso, gli incontri, passati. Ci conoscemmo piuttosto giovani entrambi, mi pare in ambito di Alleanza nazionale. Alquanto alto, snello, nessuna alterazione dai colpi sul viso, colloquiante. Soltanto le mani connotavano sembianze rusticane, campione olimpico, campione del mondo nei pesi Welter, campione del mondo nei pesi medi. Mi rappresentavo i suoi incontri, quelli con Emile Griffith, prolissi, affaticanti. Griffith legava troppo e continuamente impedendo l’allungo e la mobilità distanziata. Ricordo dal canto suo, Monzón era massacratore. Combatteva per uccidere, realmente. Credo che sarebbe stato appagato se l’effetto di un suo colpo avesse dato la fine all’avversario. La distanza, l’allungo, il moto delle gambe di Benvenuti erano venticelli, Monzon infrangeva le piramidi, colpiva attraversativo, e lo sbatacchiava a pendolo, un pugno da una parte, un pugno dall’altra, Benvenuti svolazzava, incrociava le gambe a puledro, un istinto combattivo lo risorgeva, e prendeva colpi a gusto di Monzón. Conversavamo con Benvenuti. E non ricordo la ragione. Accompagnò la mia generazione. Ci rivedemmo qualche altra volta. Fu cordiale, gradevole, conversativo. Una presenza pubblica che diventa personale. L’ho detto: ciascuno è se stesso ma contiene gli altri. E fa piacere averli in sé durante la vita. E dispiace, tanto, perderli.
Aggiornato il 23 maggio 2025 alle ore 12:35