Ancelotti: il silenzio dei campioni

Ci sono uomini che sembrano nati per la vittoria, non tanto per il trofeo in sé, ma per la calma con cui lo aspettano. Carlo Ancelotti è uno di questi. Non urla, non si agita. Vive il calcio come un direttore d’orchestra che conosce ogni nota, ogni pausa, ogni sussurro del gioco. Per anni, il suo stile silenzioso ha costruito imperi. Oggi, lo stesso silenzio lo accompagna nel suo momento più difficile da quando è tornato alla guida del Real Madrid. L’eliminazione dalla Champions League ha fatto rumore. Non perché non fosse un rischio, ma perché da Carlo ci si aspetta sempre qualcosa in più, anche quando tutto rema contro. Il Real, la squadra delle notti magiche, quella che ha riscritto la storia della Coppa dalle grandi orecchie, esce ai Quarti, con troppi interrogativi e poche risposte. Una disfatta? Forse no. Ma un segno sì, inevitabile, nella stagione in cui tutto sembra perdere colore. In Liga, il Barcellona è ormai quasi irraggiungibile: primo, solido, implacabile. Il Madrid, secondo, rincorre con dignità ma con poche speranze. E le voci, i commenti, le critiche iniziano a diventare un coro troppo rumoroso anche per un uomo come Ancelotti. “È la fine di un ciclo, è troppo vecchio, non ha più idee”.

È quasi crudele, se ci pensiamo. Quest’uomo ha guidato il Real in una delle sue ere più brillanti: la Décima nel 2014, la rimonta epica del 2022, il ritorno al vertice in Spagna e in Europa. Ha trasformato giovani incerti in campioni e vecchie glorie in leader. Ha saputo tenere insieme uno spogliatoio che spesso si frantuma sotto il peso delle sue stesse stelle. Ma oggi, per molti, è solo un allenatore in calo”. Eppure, il romanticismo del calcio vive proprio in questi momenti. Quando un gigante vacilla, quando il pubblico è pronto a voltare pagina e tu, invece, decidi di restare, anche solo per scrivere l’ultima riga con eleganza. È quello che sta facendo Ancelotti. E forse, proprio ora, arriva il suo momento più importante: la finale di Copa del Rey. Una partita secca, contro il rivale di sempre, il Barcellona. L’ultima occasione per riscrivere il senso di una stagione che molti stanno già etichettando come fallimentare. Una coppa non cambia una stagione, dicono. Ma può cambiarne il sapore. E può ridare voce a un uomo che merita di essere ascoltato ancora.

Perché Ancelotti è, prima di tutto, un artista del calcio. Uno che ha sempre messo la squadra davanti all’ego, il collettivo davanti al singolo. E che, soprattutto, ha sempre saputo cadere senza perdere la dignità. C’è qualcosa di profondamente umano nella sua figura in panchina. Il soprabito elegante, lo sguardo sereno, la mano sulla bocca a coprire le indicazioni. Non ha bisogno di sovraesposizione. Non cerca la copertina, anche se ci finisce sempre. Perché rappresenta un’idea di calcio che non urla, ma convince. Che non domina con l’arroganza, ma con la competenza. In un’epoca in cui tutto viene consumato e dimenticato in pochi mesi, il trattamento riservato ad Ancelotti lascia l’amaro in bocca. È come vedere un vecchio maestro criticato da chi non sa leggere lo spartito. Ma forse, proprio nella finale contro il Barça, il destino gli offrirà l’ultima nota giusta. Una sinfonia da suonare con il cuore, prima che cali il sipario. E se anche dovesse finire così, senza vittorie, senza trionfi… beh, sarebbe comunque un finale degno.

Perché anche nel declino, Carlo Ancelotti ci sta insegnando come si resta grandi. Anche quando tutto sembra perduto, la sua eleganza rimane. E ci ricorda che nel calcio, come nella vita, a volte è il modo in cui si perde a definire la grandezza.

Aggiornato il 24 aprile 2025 alle ore 10:23