Non era bello ed esplosivo come Gigi Riva. Non funambolico come Diego Armando Maradona. Non metafisico come Mario Corso. Tuttavia, Totò Schillaci non poteva essere dimenticato da nessuno che lo avesse visto giocare e che soprattutto avesse avuto modo di scorgere nei suoi occhi “spiritati” dopo un goal segnato o dopo uno soltanto sfiorato, la presenza di qualcosa d’altro che non fosse la semplice delusione o la fatica inutilmente consumata.
Ed era davvero il baluginare dello Spirito attraverso le sue pupille dilatate e il sorriso che le accompagnava; era un coacervo di parole non dette, ma perfettamente comprensibili; era una arborescenza di pensieri segreti, ma da tutti percepibili.
Totò infatti portava con sé, comunicandola silenziosamente a tutti gli altri, la gioia ed insieme la meraviglia del proprio riscatto personale, lasciando intendere in modo chiaro che ciascuno di noi il proprio riscatto poteva guadagnarselo con le proprie forze, a patto di nutrire sufficiente tenacia e liberante speranza.
Così aveva lui mostrato si potesse fare, anche se il suo destino sembrava segnato fin dal primo momento, visto ch’egli era nato certo in un quartiere poverissimo di quella Palermo che Leonardo Sciascia definiva “irredimibile”, ma in una via – via della Sfera n. 19 – che già preannunciava la strada che avrebbe percorso.
La vita insomma sembrava aver già tracciato un percorso simbolicamente prefigurato dalla rotondità della sfera e da quel numero 19 che sarebbe stato disegnato sulla casacca che la Nazionale italiana di calcio gli avrebbe affidato durante i Mondiali del 1990.
Tuttavia, su Totò incombeva il compito di accogliere e far fiorire i segni del destino, cosa che fece fin dal primo momento con lungimiranza e soprattutto con molta fatica morale e fisica.
Attraverso il calcio, Totò si liberò da ogni possibile pericolosa ed imbarazzante vicinanza di certi ambienti palermitani e faticosamente seppe scalare, del mondo calcistico, tutti i gradini spesso scivolosi e infidi.
Giocare nel Messina lo impose alla ribalta nazionale, conducendolo verso il palcoscenico della massima serie: la Nazionale e i mondiali del 1990 lo consacrarono definitivamente.
Il suo gioco si basava certo sulla velocità propria dell’attaccante soprattutto negli spazi brevi, ma ancor prima sulla intuizione che gli permetteva di prevedere lo sviluppo dell’azione una frazione di secondo prima degli altri, facendosi così trovare pronto all’appuntamento con il goal.
Non dotato di particolare eleganza nel gesto atletico, era però molto efficace, come dimostra che si laureò miglior realizzatore dei Mondiali, pur se la squadra italiana non conquistò neppure la finale del torneo, cosa, questa, che raramente accade.
Poi, dopo altre due o tre stagioni in Italia, amò emigrare in Giappone, cioè in capo al mondo, visto che a quel tempo – metà degli anni Novanta – le connessioni via internet o tramite cellulari erano ancora molto precarie.
Mi diede così l’impressione di volersi liberare del suo passato o, meglio, di voler cominciare a scrivere una nuova storia della propria vita, come fece tornando a Palermo proprio presso i quartieri poveri dai quali era partito ed aprendo delle scuole calcio per bambini.
Ciascuno di loro poteva così trovare un’alternativa alla miseria o alla manovalanza malavitosa, grazie alla bontà d’animo di Totò che volle mettere a disposizione degli altri ciò di cui lui stesso aveva goduto e che lo aveva salvato da un destino di perdizione.
Totò restituiva così alla sorte – per suo amabile volere – quel che di buono la sorte gli aveva permesso di raccogliere – attraverso il duro lavoro e i sacrifici di una intera vita.
Per questo mi piace ricordarlo così: seduto sull’erba di un campo di calcio dopo aver segnato un goal, mentre con i suoi occhi “spiritati” guarda il pubblico e i compagni che si assiepano intorno, quasi a significare che come lui ce l’aveva fatta anche gli altri potevano farcela.
A condizione però di nutrirsi della sua stessa speranza. Della sua stessa fede.
Aggiornato il 24 settembre 2024 alle ore 13:40