Un pomeriggio di basket, sotto il segno di LeBron

È un freddo pomeriggio newyorkese quello del 31 marzo. Domenica di Pasqua. I Brooklyn Nets ospitano in casa i Los Angeles Lakers, con la squadra dell’ovest che si sta giocando un posto nei playoff Nba, mentre i giocatori di casa sono ormai fuori dalla post-season. In Italia sono le undici di sera passate quando i tifosi iniziano a mettersi in fila per entrare nel Barclays Center, lo stadio della seconda franchigia della Grande Mela. Le porte si aprono un’ora e mezza dal tip-off, ma la coda davanti al palazzetto inizia a crearsi ben prima. Quattro ingressi principali, quattro diverse file indiane parallele non incidenti che verso l’estremità opposta si aggrovigliano in un labirinto di persone non tangenti in un modo tale tipico dell’organizzazione americana, fra transenne e nastri neri.

Guardando la folla di tifosi – soprattutto dei Lakers anzi, di LeBron James a dire il vero – l’occhio nota subito la stragrande maggioranza di famiglie, tradizionali e non, che portano i giovani entusiasti della pallacanestro a vedere da vicino i propri idoli. Quanto “da vicino”, dipende dal portafoglio: si, perché un seggiolino tra le ultime file del Barclays Center costa 150 dollari (più tasse), e i prezzi vanno man mano crescendo. Il turista – in questo caso italiano – che si trova allo stadio per assistere a una partita di Nba – un’esperienza che non capita proprio tutti i giorni – nota subito che non esiste un settore per i tifosi ospiti: sostenitori dei Nets e di Los Angeles si accodano nelle stesse file, chiacchierano e discutono, i bambini giocano tra di loro. “LeBron a Miami era semplicemente incredibile”, si sente affermare da un signore con addosso la casacca del ragazzo di Akron in fondo alla fila centrale. “Hai maledettamente ragione”, ammette un tifoso di Brooklyn poco più avanti. Sarà perché le squadre competono in due Conference diverse, oppure per via della stagione non brillante né dei Lakers né tantomeno dei Nets, ma il clima fuori dallo stadio è inverosimilmente tranquillo e amichevole.

Alle 17.30 in punto, un’ora e mezza prima del tip-off, si aprono le porte. Passati i metal detector stile airport security e timbrato (virtualmente) il biglietto d’ingresso, gli steward accompagnano i tifosi verso il proprio settore. Per i seggiolini più in alto, al terzo anello, si va in ascensore. Lo stadio all’interno è organizzato, pulito e relativamente nuovo, ma soprattutto: ogni singolo elemento – intrattenimento, cibo, infrastrutture – è sponsorizzato da qualche azienda. Sul maxischermo al centro dell’arena è un continuo di giochi e offerte patrocinate da Snapchat, American Express, McDonalds e molti altri. L’intera esperienza è brandizzata. Questo tipico business model americano, insieme al prezzo decisamente alto del biglietto, fa si che lo stadio dei Brooklyn Nets – dodicesima forza nella Eastern Conference (su 15!) – faccia impallidire la maggior parte dei palazzetti dello Stivale. Lo sport qui è per alcuni, non per tutti. Si può essere d’accordo o no, ma negli Usa quest’approccio pare funzionare.

E il meglio deve ancora venire, perché l’Nba sta al basket come la Champions League sta al gioco del calcio. Una partita fra squadre “di mezza classifica” ha presto preso i connotati di un’esibizione favolosa, con i Lakers che hanno subito lasciato i Nets 17-0 nei primi minuti del primo quarto, tra la schiacciata spalle al canestro di Anthony Davis – la cartolina del match – rimbalzi in attacco al volo e passaggi a tutto campo di LeBron. Poi, nei quarti successivi, anche Brooklyn a iniziato a giocare seriamente, ma non è mai riuscita a chiudere il gap creato da Los Angeles nei primi 12 minuti di gara. Terminato il quarto quarto, il punteggio parla chiaro: Brooklyn Nets 104, Los Angeles Lakers 116. A fine gara l’Mvp della partita LeBron James si è guadagnato una standing ovation da tutto il Barclays Center grazie ai suoi 40 punti, sette rimbalzi e cinque assist, con nove triple su 10 segnate – eguagliando il suo record personale – e una precisione da fuori area del 90 per cento. Mica male per un giovane di 39 anni nella sua 21ª stagione in Nba. Dopotutto, non lo chiamano The Goat (Greatest of all time, il più grande di tutti i tempi) a caso.

Aggiornato il 05 aprile 2024 alle ore 17:19