Gigi Riva: come spiegare quest’ondata generale di emozione, commozione, alla notizia della sua morte? Certo, l’uomo dotato di grandi qualità e carattere, le merita. Ma se non fosse stato un calciatore, il grande calciatore che è stato, se fosse stato “altro”, avrebbe suscitato analoghe emozioni e commozione? Un qualcosa di simile è accaduto con Pelé e Maradona.
Quale magia, dunque, ha reso possibile quello che è accaduto? Il fatto è che il calcio è qualcosa di più di un semplice gioco dove 22 uomini in mutande rincorrono un pallone per 90 minuti (definizione di Gary Lineker, per inciso uno dei più forti, apprezzati, popolari calciatori inglesi). Il calcio, dice bene Osvaldo Soriano, “ha le sue ragioni misteriose che la ragione non conosce”.
Per tornare a Riva, una possibile spiegazione è che ricorda la nostra infanzia: quando in famiglia o con gli amici era oggetto di infinite discussioni. Anche una specie di metafora della vita, non solo una passione. Un “duello” tra il “bene” e il “male”, tra gli “amici” e i “nemici” con un arbitro che valuta e giudica: ci sono degli avversari, quello che si deve fare è batterlo, essere migliori di lui.
Dai tempi di Riva, molto è cambiato nei “campi”: il calcio è ora terreno di investimenti nutriti da petrodollari e non solo; da anni il mercato sportivo globale è irriconoscibile, proibitive le cifre per acquistare i campioni delle principali società: in “campo”, letteralmente, sono scesi miliardari russi, arabi, dell’estremo Oriente, investitori e sceicchi che acquistano a strascico club e società. Un mondo che non è più quello di Riva, Rombo di Tuono. Quel soprannome lo deve a Gianni Brera, che glielo affibbia il 25 ottobre del 1970: il Cagliari, squadra per la quale Riva gioca, rifila all’Inter tre gol, contro uno solo subito. Sul Guerin Sportivo, Brera scrive: “Il Cagliari ha subito infilato e umiliato l’Inter a San Siro. Oltre 70mila spettatori: se li è meritati Riva, che qui sopranomino Rombo di Tuono”. Brera ama un calcio che è impeto e coraggio, e Riva è il suo naturale campione. Lo paragona a Brenno, il re barbaro che umilia Roma con il suo spiedo sulla bilancia e lo stentoreo vae victis. Riva, lombardo di Leggiuno, sardo d’adozione ed elezione, come un gladiatore: incarna Davide che si batte contro i Golia del calcio; il riscatto di un’isola prigioniera delle catene del pregiudizio; lo contrappone al milanista Gianni Rivera e al bolognese Giacomo Bulgarelli, i detestati “abatini” colpevoli di un calcio “apallico”, quello “gentile dei pavidi”.
Perché questo panegirico su Brera? Perché pochi altri, come questo immaginifico giornalista, comprendono l’animo profondo di Riva, ne intuiscono la solitudine, gli intimi tormenti. Lo definisce “erede del divino Piola”: “Le frustrazioni subite nell’infanzia gli impedivano ogni forma di prepotenza morale. Nessuno più di lui era disposto a capire gli umili. Pensandoci bene, la sua fuga in Sardegna era improrogabile voglia di riscatto, direi di evasione nel sacrificio, e quindi fatalmente nel dolore”.
Poi c’è quello che appare (e che è): una media di più di un gol ogni due partite; tra i calciatori italiani più forti di sempre. Due grandi amori: il Cagliari e la Nazionale. Classe 1944, originario di Leggiuno nel varesotto: paese di quattromila abitanti, tutti ovviamente conoscono tutti. Il Riva che con i suoi 21 gol fa guadagnare al Cagliari uno storico scudetto, quello del 1969-1970; protagonista della vittoria degli Europei 1968 con la Nazionale, in maglia azzurra un record ancora imbattuto: 35 reti in 42 partite ufficiali.
Ancora: 1,80 centimetri di altezza, 78 chilogrammi, potenza e classe: miscela unica, che lo posiziona alla 74esima posizione nella classifica dei migliori calciatori del XX secolo secondo World Soccer. Mancino naturale, eterna maglia numero 11, ala sinistra di ruolo ma anche centravanti. Inizi nelle giovanili del Laveno-Mombello, poi il Legnano. Approdo al Cagliari, con cui milita dal 1963 al 1976. Resiste alle lusinghe di Giampiero Boniperti che lo vuole nella sua Juventus. Si dice per amore di una donna che vive a Cagliari e non intende lasciare. Chapeau, se è così. L’amore per la Nazionale lo porta a ricoprire il ruolo di team manager dai primi anni Novanta, fino al 2013: gli azzurri trionfano, in quegli anni, il Mondiale del 2006 vinto a Berlino, ma perdono anche due finali agli Europei (2000 e 2012); così decide di farsi da parte.
Si può tornare ora al mito e alla nostalgia: chi lo vede calciare di sinistro il pallone non può che restarne ammaliato; con quale naturalezza, eleganza e maestria dribbla e lascia con un palmo di naso i due o tre avversari invano incaricati di “marcarlo”... Lui sfugge saettante e segna. Lo ricordate tutti vero, il suo “volo” di sinistro che infila, implacabile, il pallone all’incrocio dei pali.
Tempo fa Sky gli dedica un documentario, molto bello. E struggente l’immagine di un Riva pensoso e solitario: è in piedi, vicino all’amato mare di Sardegna. Lo sguardo fisso, lontano. Quasi sorride. Quasi. Piero Marras gli ha dedicato una ballata: Quando Gigi Riva tornerà, la si trova facilmente su YouTube. Semplice, orecchiabile, dolce. È possibile che gli abbia strappato quel sorriso che raramente concedeva.
Aggiornato il 23 gennaio 2024 alle ore 11:46