Il cuore sicuramente è caldo. Ma ciò che balza agli occhi è la testa: fredda. E non è facile, se alle spalle hai due Coppe Italia, una Supercoppa italiana, 616 presenze con una sola maglia, quella della Roma (secondo calciatore in questa classifica dietro solo a Francesco Totti, che ne ha 785). Daniele De Rossi, da pochi giorni, è allenatore della Magica. Nella conferenza stampa di oggi – di presentazione ma anche di preparazione in vista del match di domani, in programma allo stadio Olimpico contro il Verona – balza agli occhi subito una cosa: il distacco da una parte del passato. O meglio, un sano realismo: “Ho chiesto solo di trattarmi da allenatore, non da leggenda o ex bandiera”. L’ex centrocampista, campione del Mondo con l’Italia nel 2006, è consapevole che si è imbarcato in un’avventura tumultuosa, come il mare agitato che l’aspetta. Però, con la grinta che lo caratterizzava quando scendeva in campo, lancia la sfida: “Ho detto che me la sarei giocata fino alla morte per rimanerci qui. Penso siano soddisfatti di questo. Voglio meritarmi la conferma sul campo”.
Certo, approdare a fine stagione al quarto posto – il che vorrebbe dire qualificazione in Champions League, ora distante solo cinque punti – sarebbe la ciliegina sulla torta. Senza dimenticare che sul piatto c’è pure il preliminare di Europa League con il Feyenoord. Oltre al fatto che l’ambiente ancora non ha smaltito le scorie di rabbia dopo l’esonero di José Mourinho (“gli ho mandato un messaggio, non di circostanza: mi sentivo di farlo. Lui è stato tra i primi a farlo quando ho firmato per la Spal. Il mio è stato un gesto dovuto, giusto” e anche “penso che nessuno più dei tifosi della Roma sia capace di amare due persone insieme: nessuno toglie il bene che hanno voluto e che vogliono a Mourinho, ma penso che non sarà difficile per loro voler bene anche a me. Rimanendo così su quella scia d’amore, su quella scia di calore e di casino che c’era allo stadio anche l’ultima volta che sono venuto”).
Insomma, De Rossi comincerà proprio come iniziano le partite: dallo 0-0. Nessun privilegio, nessuna attenuante. Consapevole, peraltro, del materiale che ha in mano (“l’unica ragione per cui avrei detto no è se avessi pensato che la squadra fosse stata mediocre, scarsa. Non vado a fare delle brutte figure, se sono sicuro di farne. Penso che sia una squadra forte, penso che il lavoro che dobbiamo improntare ci porterà a fare bella figura e aiutare anche me come sviluppo della carriera. Dove, lo vedremo tra qualche mese”).
Ddr, tra l’altro, ricorda al mondo che “ci sono uomini che rifiutano e uomini che si buttano dentro. Non è solo voler tornare a mettersi la felpa, non è solo un discorso di vezzo o di nostalgia del passato”. Sì, sicuramente c’è molto altro. Ma, visto il sano realismo, non mancano le certezze: “Non ho bisogno di stimoli in più. Non mi destabilizza per niente. Non sono stupido. La scelta calmante è un modo un po’ brutto, un po’ moscio, di definire la scelta… Non sto dicendo qui che io sono la scelta giusta, assolutamente. Ma se chiudo gli occhi e penso ad altri allenatori disponibili, sulla piazza, messi qui oggi, la reazione della gente avrebbe potuto essere ancora più devastante nel breve termine nei confronti della squadra”.
E che non ci sia finzione si capisce pure da questo stralcio delle sue dichiarazioni odierne ai cronisti: “Io mi sento l’allenatore della Roma. Più in campo che negli spogliatoi, perché ovviamente non si toglie quel rapporto di confidenza che hai con gran parte dello spogliatoio e non è mia intenzione toglierlo: penso che ci si possa rispettare anche sapendo di essere amici. Io non devo fingere che non sono mai stato qui dentro o che non voglio bene a Pellegrini, a Cristante. Non ho mai finto qui dentro, non ho mai finto con i miei compagni, non ho mai finto con i tifosi. Non devo fingere: una persona mi ha consigliato di non venire con la mia macchina, perché sai, è troppo… Io non devo fingere nemmeno di essere povero. Non devo fingere, devo fare l’allenatore”. Però una volta uscito dallo spogliatoio ed entrato nel rettangolo verde, lì cambia il corso degli eventi: “Lì mi sono sentito l’allenatore. Perché loro mi guardano, mi ascoltano. La sensazione dei primi giorni è che gradiscano quello che sentono. Poi questo non è abbastanza per essere un bravo allenatore, ma magari lo è il fatto che queste idee, quello che facciamo, ci portino qualche punto”.
In una città schizofrenica e passionale come Roma, forse, De Rossi al momento rappresenta quel pizzico di acume che serviva per dare una sterzata ai troppi nervi tesi. Ai tifosi non resta che capire una cosa: quel ragazzetto biondo di Ostia non è più Capitan Futuro. Se sarà l’allenatore del Domani, invece, lo scopriremo solo vivendo.
Aggiornato il 19 gennaio 2024 alle ore 15:45