Cosa abbiamo imparato dalla favola dei Miami Heat

Se è vero che la storia la scrivono i vincitori, questa stagione di Nba sarà ricordata come quella in cui i Denver Nuggets hanno vinto il loro storico primo titolo di campioni. Ma i Miami Heat, sconfitti in finale, non sono stati da meno. Il pregio della cavalcata nei play-off è stato a dir poco impressionante: giocatori, allenatore e direttore tecnico hanno messo in piedi un vero e proprio miracolo sportivo, al quale i tifosi di tutto il mondo hanno avuto il privilegio di assistere. La squadra del Sunshine State è uscita sconfitta nella finalissima, ma si è comunque portata a casa il trofeo della Eastern Conference, sconfiggendo nella finale i Boston Celtics per 4-3, in una serie di sette incontri uno più spettacolare dell’altro. Gli irriducibili del Massachusetts avevano pareggiato la serie con un canestro all’ultimo respiro, ma gli Heat – complice l’infortunio di Jayson Tatum – hanno avuto la meglio in gara 7.

Per prima cosa, bisogna fare i complimenti alla stella di Miami, Jimmy Butler, che nei play-off si è trasformato, diventando una macchina da canestri (una media di 27,4 centri a partita, record personale) restando comunque uno dei difensori più in forma della lega, con un record di 2,1 palle rubate in media a partita. A fare compagnia alla guarda classe ’89, troviamo Bam Adebayo, 14esima scelta assoluta nel draft 2017. Il centro degli Heat, oltre a difendere sontuosamente, durante la fase ad eliminazione ha avuto una percentuale al tiro atipica per uno del suo ruolo, con il record personale di 59,4 per cento. Per finire, le due rivelazioni della stagione di Miami: Caleb Martin e Gabe Vincent. I due cestisti si sono ritrovati nell’Nba, travasati dalla Development league, un po’ per necessità e un po’ per scommessa sportiva. Per il secondo, più di 20 minuti a partita, otto punti di media e delle prestazioni fuori dal mondo. Insomma, gli Heat hanno mancato l’appuntamento con la storia (relativamente) ma hanno fondato basi solide per costruire. Ed è merito principalmente della “mano invisibile” dell’allenatore Erik Spoelstra e del dirigente Pat Riley.

Il coach è abituato a tirar fuori il meglio dai suoi giocatori, ed ha il pedigree del vincente. Nel 2012 e nel 2013, Spoelstra ha vinto due anelli, prima contro gli Oklahoma City Thunder e poi contro i San Antonio Spurs. Certo, dieci anni fa nel quintetto di Miami c’erano due leggende della pallacanestro: il Greatest of all time (Goat) LeBron James e Dwyane Wade, bandiera (intesa all’americana) della squadra della Florida. Esclusi i due trofei vinti con i due campioni, negli ultimi 10 anni coach Spoelstra è arrivato sei volte in finale di Conference, con una rosa spesso considerata poco competitiva dagli esperti del settore.

La visione d’insieme, il faro di Miami, è Pat Riley, il General manager, hall of famer dell’Nba. Da allenatore, ha vinto cinque campionati con i Los Angeles Lakers negli anni ’80 e uno con gli Heat nel 2006. Poi, nel 2008, Riley ha deciso di fare un passo indietro e ha nominato Spoelstra come head coach, che prima ricopriva la carica di capo scout (colui che cerca i talenti da tesserare). Da quel momento i due dello staff hanno creato una squadra vincente, a basso costo, sempre over performante e capace di sorprendere. Chissà se, con l’innesto di una spalla per Jimmy Butler, l’anno prossimo Miami potrà concludere il percorso iniziato quest’anno, regalando un trofeo che manca da 10 anni ai tifosi del Sunshine State.

Aggiornato il 16 giugno 2023 alle ore 09:50