Il “beau geste” di Vingegaard: merita al massimo un telegattone

Sì, la tentazione di lasciarsi andare c’è stata. Ed è stata (im)mediata. Proprio nel senso che non è stata mediata. Da nessuno. Il ruzzolone di Tadej Pogacar, dopo quello mancato di Jonas Vingegaard appena un paio di curve prima; la maglia gialla che resta sola, si rialza, aspetta; poi il primo piano sullo squarcio, il sangue, la stretta di mano, lo sguardo, i sorrisi, la pelle d’oca. Bella storia. Bellissima. Da groppo in gola.

Poi è arrivata la mediazione. Nel senso dei media, che mediano. A modo loro, però. Senza mediare. Con banalità pre-ferragostane, di quelle che in redazione ti risolvono la giornata a meta pomeriggio (“e dai, metti ’na foto de’ Coppi e Bartali, così chiudemo presto”). Cicerone usava incantare l’uditorio con una tecnica triplice: probare, delectare e flectere. Cioè, dimostrare ciò che si dice, deliziare la platea con un’oratoria impeccabile e infine commuovere, giusto per attirarsi i favori di chi ancora non si è lasciato convincere dai fatti. Cicerone, appunto. Questi, invece, non probanodelectano, ma agiscono solo sul nostro sistema nervoso con vagonate di retorica un tanto al chilo, con il risultato di svalutarne tecnica e tradizione, esaltandone il lato oscuro più ampolloso ed emotivo, “sostanzialmente vuoto, privo o povero di impegno intellettuale, civile e morale” (citiamo la Treccani).

L’imperativo dei guardiani del pensiero, dunque, è commuovere, commuovere, commuovere. Far piangere a comando. La reazione del bimbo è “commovente”, l’abbraccio al cagnolino ritrovato è “commovente”, l’autografo di Paulo Dybala a un tifoso novantenne arrivato dalla Calabria è “commovente”, Antonello Venditti al Circo Massimo e i fazzoletti bianchi sventolati dal pubblico non può che essere un’immagine “commovente” (ve lo ricordate il Nostro che piange sulla spalla di Michele Plastino a fine concerto?).

E allora piangiamo. Anzi, no. Dal Tg1 e i suoi derivati (che ormai hanno istituzionalizzato la loro missione sociale, utilizzando le tecniche lacrimevoli di seduzione per abbassare le difese di noi vittime inconsapevoli e indebolire le nostre facoltà di pensare e decidere in autonomia), fino a Tv Sorrisi e Canzoni (quelli del telegattone), è stato un trionfo a mani basse della favola a lieto fine. Perché se Vladimir Putin bombarda senza pietà, per fortuna c’è ancora chi in un angolo remoto dei Pirenei ha avuto il cuore di mettere gli interessi altrui davanti ai propri. E rileggiamolo, allora, con il cinismo che ci appartiene, questo drammone dei buoni sentimenti.

Quando Pogacar va per terra mancano 27 chilometri al traguardo. La maglia gialla può fregarsene a scappare in discesa, hanno detto. Ma non si sa bene perché avrebbe dovuto farlo, chiediamo umilmente (e cinicamente), pur avendo davanti un suo gregario, e che gregario (quel fenomeno di Wout Van Aert), che poteva fermarsi e attenderlo e portarlo all’arrivo. Ma Van Aert era ancora molto lontano, e la salita, l’ultima del Tour e tra le più dure, era molto vicina. Perché Vingegaard avrebbe dovuto correre il rischio di fare parecchi chilometri da solo, compreso l’inizio salita, con la possibilità, se non di andare in crisi, di sprecare comunque energie inutili prima di ricongiungersi con il suo compagno di squadra? E infatti è un rischio che non ha corso.

Dopo il capitombolo del suo avversario non poteva non fare quello che ha fatto. Aspettare (anche perché Pogacar l’avrebbe raggiunto comunque in pochi minuti), prendersi una pacca sulla spalla, e soprattutto rimettersi a ruota del suo avversario. Per poi partire al momento giusto e staccarlo negli ultimi chilometri e consacrarsi sulle ultime pendenze. L’avvocato del diavolo che è in noi imporrebbe, dunque, di veder nel beau geste un atto quasi dovuto. Correttezza e sportività quanta se ne vuole, ma anche logica e intelligenza tattica minima: mi fermo, ti aspetto, ti coccolo, ti succhio (le ruote), ti sfinisco e poi ti finisco. E vinco. Chiamalo scemo. Telegattone?

Aggiornato il 02 dicembre 2022 alle ore 22:04