Ci sono cose da cui non usciremo mai: un bacio rubato, la maglietta della salute, la camicia di flanella, il detto e non detto, la voce altezzosamente fastidiosa del ragazzino che cerca di convincere l’universo mondo di quanto sia esagerata una nota aranciata (che fa rima). Ma anche Claudio Caniggia che di testa spizza il pallone dopo lo spiovente di Julio Olarticoechea, arrivando prima di Walter Zenga, l’Uomo Ragno, che fa male i calcoli e che tra i guanti, invece della sfera, raccoglie un pugno di moscerini. Il gelo che investe lo stadio San Paolo, i sogni che svaniscono, i compiti delle vacanze che non finiscono e una strana sensazione che sa tanto di fregatura. Una delle prime, una delle tante.

L’8 giugno 1990, ovvero 32 anni fa, i Mondiali di calcio sbarcano in Italia. La mascotte è Ciao: disegnata da Lucio Boscardin, rappresenta un burattino snodato formato da segmenti (ossia elementi cubici di colore bianco, verde e rosso) che se scomposti formano la parola Italia. Il carrozzone, canta Renato Zero, va avanti da sé. Nella Penisola è una pioggia di investimenti, stadi riammodernati o costruiti ex novo – Delle Alpi di Torino e San Nicola di Bari – materiale per gli amanti del mistero (Hotel Mundial tra Milano e Ponte Lambro), roba di ingegneria approssimativa come la stazione ferroviaria di Farneto (Olimpico-Farnesina), a Roma, durata meno di un gatto in tangenziale o quella di Vigna Clara, sempre nella Capitale, messa subito in ghiacciaia per problemi legati al progetto. Pressappochismo is the way, recita una famosa pagina social, ma alla fine chissenefrega. Dopotutto, l’aria è frizzante, la selezione Azzurra è forte, Salvatore Totò Schillaci segna anche se distratto da qualche avvenente turista in gonnella, mille lire possono bastare in sala giochi, i conservanti del gelato confezionato non nuocciono gravemente alla salute e Loredana Romito non provoca cecità. Insomma: la corrente è positiva, le chiacchiere stanno a zero e tutto il resto è noia.

La partita inaugurale della manifestazione è il classico gavettone che non ti aspetti: il Camerun stende l’Argentina, detentrice della Coppa del Mondo, con una incornata di Francois Omam-Biyik. Nery Pumpido, portiere dell’Albiceleste, gioca questa e la partita contro l’Urss. Poi si infortuna e per noi è un dramma: il sostituto, Sergio Goycoechea, parerà di lì in avanti l’impossibile, compresi i rigori di Roberto Donadoni e Aldo Serena, in una serata napoletana di pizzichi e rimorsi. Solo il tedesco Andreas Brehme, nella finale dell’Olimpico, riporta lestremo difensore sudamericano sulla terra, togliendogli quella fastidiosa aura di buona sorte. E Diego Armando Maradona può solo guardare. In questo girotondo di anime c’è Disperato di Marco Masini che accompagna la non accettazione di un risultato sportivo a portata di mano (l’Italia si piazza terza, dopo il successo nella finalina contro l’Inghilterra): la rete da orgasmo di Roberto Baggio contro l’allora Cecoslovacchia, la difesa granitica radiocomandata da Franco Baresi, le bandiere tricolori, la freschezza della meglio gioventù volano via. E non tornano più.

Morale della favola? Ci sono cose da cui non usciremo mai. Così in certe notti, quelle magiche, fa anche effetto tornare un passo indietro nel tempo. Dopotutto, ricordare serve pure a cancellare il dispiacere. Ovviamente inseguendo un gol. Quel gol che, ahimè, manca ormai da 32 anni sotto il cielo di una estate italiana.

Aggiornato il 03 dicembre 2022 alle ore 09:03