“Don’t die like me”. Un paziente del “Cromwell Hospital” chiede un gelato. Sdraiato su un letto c’è un vecchio – che poi vecchio non è, ha 59 anni – “circondato da tubi di plastica”, con indosso “una specie di pigiama bianco” e lo sguardo “di chi ha capito di non doversi aspettare più nulla”. Ha “cerotti, versamenti di sangue e lividi attorno al collo, sulla spalla. La pelle del viso è uno straccio giallo sottilissimo, appoggiato sulle ossa che la sostengono”. Potrebbe essere chiunque, invece è George Best, Pallone d’oro nel 1968, icona del Manchester Utd, probabilmente il più grande giocatore che abbia calcato i campi della Premier League: è il 2005 quando decide di farsi fotografare in quelle condizioni e “don’t die like me” è ciò che dice. A parlare è uno che “ha avuto due fegati”, il secondo “glielo hanno trapiantato nel 2002, e non se li è fatti bastare, al pari del tempo che ha avuto a disposizione”.
Paolo Marcacci nel libro edito da Kennes traccia il profilo di un fuoriclasse venuto alla luce il 22 maggio 1946 a Belfast, una città che ha “più muri di Berlino”, perché “ai cittadini danno sicurezza”: li chiamano Peace walls. Da quelle parti puoi nascere dalla parte sbagliata o giusta, a seconda dei punti di vista: cattolici o protestanti, feniani o lealisti. Best non ci bada troppo, va più veloce degli altri e si innamora presto. All’inizio l’infatuazione è per la casacca del Glentoran, poi per la squadra inglese del Wolverhampton Wanderers: per vedere i loro match si rifugia dal signor Harrison, un vicino benestante. E la scena è sempre la stessa “nelle sere in cui vengono trasmesse le partite: si piazza sotto casa” e “inizia a bombardare il muro con una serie di pallonate. A pochi istanti dal fischio di inizio, immancabilmente, Harrison chiede al ragazzino se, per caso, abbia voglia di assistere con lui alla partita che stanno per trasmettere alla televisione”.
L’Inghilterra è nel destino di George Best: è un ragazzino quando dal porto di Belfast si imbarca, insieme a un coetaneo, Eric Mcmordie, alla volta di Manchester. Con la maglia dei reds vincerà due campionati, una Coppa dei Campioni, due Charity Shield. Il tutto concentrato in pochissimi anni. Nonostante il talento e Matt Busby, il tecnico vissuto due volte e che si pone l’obiettivo di far rinascere i Diavoli Rossi: nel 1958 è a bordo del velivolo bimotore Elizabeth, che si schianta sul suolo di Monaco di Baviera. Muoiono otto giocatori dello United. Busby è ferito gravemente, per due volte riceve l’estrema unzione, ma si salva. E Best è il suo punto di svolta.
Il nordirlandese tocca il cielo con un dito a 22 anni, a Wembley, nel turno conclusivo della Coppa dei Campioni: 4-1 al Benfica, un gol, una gara sontuosa, “l’apice della gloria”. Il destino che corre troppo in fretta, veloce come l’ala venuta dal Cregagh Estate. Quel giorno si chiude un capitolo e ne inizia un altro, tremendo. “A George l’alcol non piaceva; sembra una battuta triste, col senno di poi, invece è soltanto la verità paradossale del ragazzino più talentuoso di quella nidiata di “Busby babes” che si sorprendeva nel vedere che il saggio Bobby Charlton si faceva un bicchierino di scotch per calmarsi prima di entrare in campo, mentre lui, George, si portava nella borsa quella mezza tavoletta di cioccolato. In effetti chi comincia, ed è la più banale delle verità, comincia sempre per un motivo, stupido o tragico che sia e a volte l’una o l’altra definizione la sceglie il punto di vista degli altri”. Ecco così le prime birre “per farsi coraggio”, un “coraggio al doppio malto”.
La madre Anne muore nel 1978 a causa dell’alcol. Strana la vita: “George ha raccontato spesso di essersi trovato in un locale, da solo, con l’intenzione di centellinare un drink, quindi di bere qualcosa solo come una scusa per starsene un poco per i fatti suoi e che, immancabilmente, qualcuno o più di qualcuno si avvicinava per offrirgli champagne o un’imperdibile annata di brandy”. Che sia vero o meno, la realtà è che “il calcio per George è stato un demone inconsapevole”, rappresentando “la parte realmente felice della sua vita al punto tale che è riuscito a ingannarlo su tutto il resto”. Già, dallo smaltire le sbronze sul campo di allenamento al genio mostrato sul rettangolo verde che fa chiudere un occhio (anzi tutti e due) davanti a notti tra vodka e stravizi. Anche se, come racconta Tony Adams, ex capitano dell’Arsenal, “nessun alcolista lo è mai, l’importante è non ricominciare, perché per noi un bicchiere è troppo e cento non sono niente”.
Il finale è un suono che fa “don’t die like me”: George Best è morto il 25 novembre 2005. Di lui si ricorda la frase “ho speso un sacco di soldi per alcol, donne e macchine veloci... tutti gli altri li ho sperperati”. Probabilmente “il vizio gli ha dato un po’ di tregua, a fasi alterne, ma non lo ha mai abbandonato e lui non ha mai voluto che lo abbandonasse, in fondo”. Perciò “nell’ammonire gli altri a non fare la sua fine imminente, quell’uomo che sa di stare per varcare il confine, forse, non vuole soltanto lasciare a chi resta quello che potremmo definire un messaggio socialmente utile”.
Questo non lo sapremo mai. Di certo, però, resta un dogma che a Belfast, la città dei muri, suona come una preghiera. Una preghiera dedicata a chi, santo, non lo è stato: “Maradona good, Pelé better, George Best”.
(*) Paolo Marcacci, “George Best. Il migliore”, Kennes, 124 pagine, 15,95 euro
Aggiornato il 02 dicembre 2022 alle ore 22:38