Ritratti. Sergio Pellissier: vita, porte e miracoli

Il 1997 si muove al ritmo dei Blur e dei Radiohead, tirando le orecchie a “Quelli che benpensano” magistralmente descritti da Frankie Hn-Nrg Mc. Il mondo perde Madre Teresa di Calcutta e Lady Diana, il campionato di calcio di casa nostra abbraccia Ronaldo (il Fenomeno) e gli studenti delle quinte superiori, con il suono della campanella, si accingono a percorrere una corsa a tappe che li porterà ad affrontare l’ultimo esame della maturità prima della sua riforma, un sistema durato 30 anni con commissione esterna, voto in sessantesimi, sufficienza a quota 36, tre tracce per il tema di italiano, la prova caratterizzante l’indirizzo (Liceo classico, scientifico, Istituto tecnico o professionale) e lo scoglio dell’orale su due materie (una scelta dallo studente, l’altra dalla commissione, che di base confermava quella opzionata dall’alunno).

Per qualcuno il percorso proiettato al diploma non inizia per niente bene (4 e mezzo all’interrogazione di Latino il secondo giorno di scuola). E visto che mentalmente non è pronto ad affrontare la Logica di un capoccione meglio noto come Georg Wilhelm Friedrich Hegel, meglio deviare per il verbo in rosa, ossia la Gazzetta dello Sport. Soprattutto nel weekend, quando ci sono risultati e tabellini delle squadre calcistiche giovanili, categoria Primavera. Un po’ per curiosità e un po’ per vedere che fine avesse fatto quel ragazzino (Luca Matteassi, approdato al Piacenza) che era una spanna (anzi, molto più di una spanna) sopra gli altri. Scorrendo i nomi, spesso e volentieri compariva tal Pellissier (Sergio, 459 partite in Serie A e 112 gol, una cosa sola con la maglia del Chievo Verona). Di questo giovanotto diventato una icona dalle parti dello stadio Marcantonio Bentegodi ne ha parlato Matteo Renzoni (“Ho fatto trentuno. Sergio Pellissier. Vita, porte e miracoli”, edito da Absolutely Free Libri, prefazione di Jerry Calà).

Pellissier è tanta roba: ha segnato “più di Prati ma in molti non lo sanno. Non era un divo, era uno che divorava. È stato una bandiera, probabilmente l’ultima. Del Chievo ma anche di un modo autentico di essere calciatore lontano dai divismi antipatici che affliggono lo sport. Super sì, superstar no. Un manifesto di normalità fuori dal comune ma molto dentro la provincia”. In parole povere, è uno che “non ha fatto solo il calciatore, ha giocato a pallone. Provandoci sempre. Perché i calzoncini si lavano ma i rimpianti mica tanto”. Fino al Football Club Clivense, fondato insieme a Enzo Zanin il 13 agosto 2021, la sua prima squadra è stata iscritta nel campionato di Terza categoria. Il progetto “nasce con l’obiettivo di fondare una società che sintetizzi tutto il bello che uno sport come il calcio deve e può dare. Fc Clivense è un progetto di sostenibilità attraverso cui dare ai ragazzi che ne faranno parte princìpi e idee fondamentali per non perdere mai lo spirito di squadra e aggregazione”.

Sergio Pellissier “è nato nella terra di suo padre, a tredici chilometri da Aosta, andando in direzione sud. Un borgo medievale che si chiama Fénis, scritto così, marcando bene la “esse” finale”. Ma c’è anche una parte sarda: la madre è originaria di Lodè, “in questo caso l’accento non è acuto, un piccolo centro montano posto tra Nuoro e Sassari con le case di pietra, i balconi in legno, e i fiori messi lì a impreziosire le finestre. Come un tocco morbido alla fine di un’azione”.

Pellissier ricorda di essere arrivato in Serie A a 23 anni “dopo aver fatto tantissima gavetta. E prima di conquistarmi il posto in maniera definitiva sono passate altre tre o quattro stagioni. Per non parlare della Nazionale: una presenza (con una rete, ndr) e non prima dei trent’anni”. Il primo gol in Serie A giunge allo stadio Ennio Tardini, contro il Parma: Sergio Pellissier torna alla base dopo il prestito alla Spal. Davanti a sé ha un parco attaccanti composto da Oliver Bierhoff, Massimo Marazzina, Federico Cossato, Luigi Beghetto. In quella partita – ferma sullo zero a zero – entra a 25 minuti dalla fine: fino al quel momento, “ottava giornata, in stagione aveva messo insieme appena 48 minuti in campo, nemmeno tutti di fila”. Al 94esimo di una garaccia “umida”, il bomber “si trova al vertice di una triangolazione che pare disegnata da Delneri, l’allenatore del miracolo, sul dorso rovinato di una lavagna tattica: il pallone calciato al centro dal campo raggiunge Franceschini tutto spostato sulla sinistra, il laterale biondo lo mette dentro al volo verso il dischetto del rigore, a memoria e senza guardare, Ferrari è in anticipo ma Pellissier al difensore del Parma gli frega tutto: tempo e certezze, pallone e scena. Alla fine, persino la partita”. Il resto è storia, con un Chievo passato “dai preliminari di Champions alla Serie B nella stessa stagione. Poi abbiamo vinto il campionato, siamo tornati su, a metà torneo ci davano per spacciati ma ci siamo salvati lo stesso. Ho esultato come un bambino. Mi sono sentito al settimo cielo”.

Sergio Pellissier rappresenta una “sorta di diritto alla realizzazione personale: perché il calcio non è solo una faccenda da predestinati”. È l’articolo 31, come il numero di maglia che lo contraddistinguerà per tutta la sua carriera. Un centravanti venuto al mondo nel 1979, come quel ragazzo che iniziò la scuola con un 4 e mezzo a Latino l’anno della maturità e che dietro alla schiena, alla fine, si stampò un 38 (un po’ più di 36, un po’ meno di un meritato – forse – 42). Un po’ nel limbo, insomma, ma inconsapevole che l’occasione giusta, un giorno, sarebbe arrivata. L’importante era farsi trovare pronto, in anticipo sul difensore, al 94esimo, al termine di una partitaccia “umida”. Un po’ come un attaccante vecchio stampo. Un po’ alla Sergio Pellissier.

(*) Matteo Renzoni, “Ho fatto trentuno. Sergio Pellissier. Vita, porte e miracoli”, prefazione di Jerry Calà, Absolutely Free Libri, pagine 200, euro 16,90

Aggiornato il 02 dicembre 2022 alle ore 22:39