Totti, non sempre un campione può essere un bravo dirigente

La conferenza stampa organizzata da Francesco Totti per annunciare il suo addio alla Roma (ove era in organigramma come dirigente) ha destato un vespaio di polemiche. Comprendiamo lo sfogo dell’ex capitano della Roma perché dettato da amore vero per i colori giallorossi e da una volontà - frustrata dalla proprietà - di rendersi utile alla causa. Sulla genuinità del personaggio, sulle qualità morali e sulle sue cristalline doti calcistiche solo un pazzo potrebbe istillare anche un minimo dubbio. E non saremo certo noi a farlo. Il ragazzo è di assoluto pregio e il calciatore può entrare a giusto conto nell’olimpo dei migliori di tutti i tempi. Questo non implica però che le qualità sopra elencate, oltre che necessarie, siano anche sufficienti ad esercitare un ruolo manageriale all’interno di una società modernamente organizzata.

Da circa un anno appariva chiaro che per il “Pupone” la società avesse pensato ad un ruolo prettamente iconico: ti vesti da manager, vai a vedere la partita tutte le domeniche, parli il meno possibile e poi tagli qualche nastro quando ti capita. E invece l’ex capitano giallorosso ha mal sopportato la situazione rispedendo al mittente quella che gli è sembrata uno diminutio e ritenendo invece di avere le caratteristiche, oltre che il know-how, per “prendere in mano la Roma” (sono grosso modo parole sue) e guidarla verso la rinascita.

Al netto della stima e della simpatia che noi nutriamo per l’ex calciatore romanista, la sua ricostruzione della vicenda non ci ha convinto perché non siamo del tutto certi che la sua estromissione dalle decisioni sia legata a motivi diversi da quelli prettamente aziendali (vogliono cacciare i romani dalla Roma, invidie, lotte interne e così via). Le società calcistiche funzionano come tutte le altre per cui, se la proprietà ritiene di dover relegare un proprio dirigente al ruolo di mera rappresentanza non affidandogli nemmeno la “piccola cassa”, lo fa perché non si fida delle sue capacità manageriali ma tuttavia è costretta a tenerselo in casa perché piace alla “piazza”. E se un manager non ha capacità di autoanalisi e cognizione dei propri limiti culturali e attitudinali, ritenendo che essere stato un ottimo uomo di campo basti a dirigere un’azienda (anche solo dal punto di vista tecnico), allora rischia di scivolare tra quelli che sono così autocentrati da ritenersi in grado di potersi occupare di tutto (megalomani senza basi). Forse a Totti questa volta è mancata un po' della sua proverbiale umiltà, ma ciò non assolve il presidente James Pallotta da una serie di scelte completamente sbagliate (Pallotta non sta facendo il bene della squadra).

Il mondo è pieno di ex stelle del calcio che hanno fatto scelte diverse: c’è chi come Roberto Baggio ha deciso di ritirarsi a vita privata, c’è chi come Zinedine Zidane o Rino Gattuso ha deciso di allenare, c’è chi come Paolo Maldini, Igli Tare, Javier Zanetti o Pavel Nedved hanno intrapreso con successo la carriera dirigenziale. Tra alti e bassi, nessuno di costoro ha convocato conferenze stampa gridando al complotto e alle congiure dei poteri forti. Costoro si sono messi a studiare a capo chino per prepararsi al nuovo ruolo.

E poi c’è Francesco Totti che voleva gestire la Roma (dopo un anno da dirigente) e che subito dopo aver cominciato il corso da allenatore dilettante Uefa B (primo step per la carriera da allenatore) si ritira per impegni sopraggiunti (ndr: il corso - davvero impegnativo - è riuscito a terminarlo anche uno come chi scrive e che sul campo non sarebbe stato in grado nemmeno di lustrare gli scarpini a un mostro sacro come Francesco Totti). Per fare “Er DT” di una squadra di calcio non basta “il cucchiaio” e nemmeno “la rabona”. “Devi da studià, Francé”, perché il popolo romanista ti farà sentire un Dio a prescindere dai tuoi meriti come manager, ma “li sordi so de Pallotta”.

Aggiornato il 19 giugno 2019 alle ore 15:33