Il turismo spregiudicato e il collasso delle città

Poche settimane fa The Telegraph aveva sentenziato che Napoli si fosse trasformata, anzi “disneyficata”, in un vero e proprio parco a tema. Secondo i colleghi del quotidiano inglese, il centro storico del capoluogo campano è stato letteralmente strappato ai residenti per essere trasformato in un luogo senza anima, senza identità, pronto ad essere svenduto a orde di turisti che negli ultimi anni hanno raggiunto cifre considerevoli. Da città paradigma di un’Italia sporca, arretrata, incline più alle pratiche illegali che alla giustizia, oggi Napoli è una città nuova: ha fatto grandi passi avanti sul piano del decoro e della gestione dei rifiuti, ha diverse linee di metropolitana – anche artisticamente piuttosto interessanti – ed è una realtà protagonista di tantissimi prodotti televisivi, nonché palcoscenico di decine di influencer piuttosto folkloristici. Soprattutto nel periodo natalizio, non mancano servizi di telegiornali locali e nazionali alla via dei presepi – la celebre San Gregorio Armeno – o a qualche pasticceria storica.

La Partenope del 2025 non è più la città di 15 anni fa, almeno apparentemente. È una delle città più visitate d’Italia e sono moltissimi i tiktoker e gli influencer che mostrano cosa fare a Napoli. Ma a giudicare dai contenuti più diffusi, sembra che l'interesse sia più quello di far vedere cosa si mangia e, in un secondo momento, sempre se rimane tempo al tour de force della giornata, qualche chiesa o monumento da visitare. In effetti, una volta che si arriva al centro di Napoli e si prende Via dei Tribunali, o la famosa Spaccanapoli, oppure Via Toledo, si rimane colpiti dalla sterminata presenza di pizzerie e pasticcerie, quasi tutte con la vetrina su strada, al cui esterno si formato spesso file di decine di avventori. Soltanto su Via dei Tribunali, arteria lunga meno di un chilometro, si contano più di 20 pizzerie. La cosa non dovrebbe sembrare strana, dopotutto ci troviamo nella città della pizza. È l’alimento emblematico della cultura gastronomica partenopea: niente a che vedere con il maritozzo romano o con la cassata siciliana.

Il problema sorge quando si monopolizza una parte del territorio con attività spesso di basso livello, il tutto con l’idea che tutto ciò possa rendere più autentica l’esperienza turistica. Fuori da quasi tutte queste pizzerie non manca il dipendente pronto a illustrare la grandezza del locale con slogan talvolta patetici: “qui trovate l’autentico cuoppo”, “qui c’è la pizza a un euro”, “qui ha mangiato questo attore o questo presidente” e così via. Si vende una pseudo-esperienza a turisti affamati, spesso intenzionati a spendere il minimo, il più delle volte con conoscenze gastronomiche approssimative, che potrebbero pensare davvero di mangiare qualcosa di auteticamente italiano o napoletano in un ristorante che magari non fa niente di straordinario.

Per non parlare di tutte quelle pasticcerie che quotidianamente fanno live su Instagram o TikTok dove mostrano i loro prodotti: babà farciti con quantità spropositate di creme (industriali), cornetti che vengono riempiti con gelati (industriali) e topping di dubbio gusto (e provenienza). Il tutto per sfamare il popolo dei social. E fuori da questi locali la gente sta con il telefono in mano, pronta a filmare e postare la loro esperienza napoletana al costo di qualche euro (che poi anche la questione prezzi sta degenerando, con panini virali venduti a 10 euro). Ecco il parco Disney presentano da The Telegraph. Una città che ha sempre più la parvenza di un parco giochi: l’ingresso è gratuito, fai la fila dove vuoi fare il giro, metti il gettone e il treno parte. È tutto così sciatto, meccanizzato, artificiale. Le vetrine delle pasticcerie sono sempre piene di dolci fuori misura, e mi chiedo quanto realmente vendano o se quello che è in esposizione non sia vecchio di qualche giorno (e questo succede, dato che molti locali poco social sono spesso vuoti).

Le persone partono apposta per assecondare la fame chimica e trovarsi alle due di notte a fare la fila per un cornetto. I creator sguazzano in tutta questa vendita di banalità. Poi il tempo passa, arrivano le recensioni negative di qualche cliente vagamente attento alla qualità del cibo, le file chilometriche diventano piccoli gruppi di resistenza, e il locale chiude. La fama finisce e tutto scompare, proprio come qualche magia da cartone animato. E tutto ciò non soltanto a Napoli. Roma, Venezia, Firenze, Barcellona, Parigi. Tutte città storicamente importanti, con un ruolo centrale nelle dinamiche storiche e artistiche. Le persone viaggiano da sempre, anche se il turismo come fenomeno moderno coincide con la diffusione dei voli a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta. Ma certamente 70 anni fa, o nemmeno dieci anni fa, non c’era tutto questo. Diciamo che non sono solo cambiati i numeri, quanto piuttosto la qualità, del turismo. Compagnie low cost, ostelli, fast food: tutto questo permette davvero a chiunque di viaggiare.

Sembra che io veda il turismo come qualcosa di elitario, ma non è così. Tutti devono viaggiare, ma quando si trasforma il viaggio in una sorta di sopralluogo a uno zoo o appunto ad un parco giochi, dove si vuole da una parte assecondare la guida turistica 2.0 di TikTok e al tempo stesso darsi un tono da visitatore antropologico, con frasette banali come “voglio fare esperienze local”, “voglio sentire le vibes” oppure “voglio conoscere i posti non turistici”, si rischia di contaminare profondamente i luoghi davvero autentici di una città, dove le persone vivono, lavorano, dove c’è un equilibrio economico, ma anche una certo modo di vivere. Si invadono le città come se fosse davvero necessario per un turista scoprire chissà cosa sugli abitanti o sullo stile di vita.

Il turismo porta soldi a qualcuno, ma disagi e povertà ad altri. Tanti affittuari si vedono costretti a lasciare gli alloggi per fare spazio a case-vacanze, locali storici o botteghe di quartiere scompaiono e appare al loro posto qualche franchising, oppure il negozietto di calamite, o ancora qualche locale instagrammabile. Non è più un turismo di scoperta: è un turismo violento, che lascia i segni nelle città, nelle strade, e nell’economia. Una città turistica non è una città ricca. È un benessere – quello portato dal turismo di massa – più teorico che non concreto. Non che ognuno debba arricchirsi (se sono un impiegato certamente non voglio uno stipendio più alto se nella mia città i turisti aumentano a dismisura), ma le persone che non ottengono guadagni dal turismo dovrebbero almeno essere tutelate: cioè devono poter andare a lavoro, oppure fare la spesa o mangiare al ristorante, senza che le orde influenzino negativamente la loro quotidianità o esperienza.

Sembra brutto da dire ma una gerarchia va garantita: prima la stabilità dei locali, e dopo l’eccitazione dei turisti. A quanto pare molte città hanno imboccato la strada inversa. Mi chiedo quanto tutto questo possa essere ancora tollerabile dalle città, dagli abitanti e dai sistemi economici. Un po’ come quando l’aereo va in stallo, si ferma e poi cade a picco, questo turismo potrebbe ritorcersi contro tantissime città, e anche molto presto. Va da sé che l’intervento deve essere politico, perché non è certamente un negoziante o il proprietario di qualche appartamento a poter cambiare questo sistema deviato. I turisti vogliono conoscere, o almeno così dicono, “l’anima delle città”. Quest’anima, questa autenticità, tante città l’hanno persa o la stanno perdendo, e tutto per dare ai social l’idea di sentirsi davvero influenti.

Aggiornato il 23 dicembre 2025 alle ore 16:14