Negli ultimi mesi, il dibattito sulle priorità strategiche dell’Unione europea ha riportato al centro della scena due temi fondamentali per il futuro del nostro continente: la difesa comune e la sanità pubblica. Con l’approvazione dei piani europei che prevedono un aumento significativo degli investimenti militari – si parla di circa 130 miliardi di euro per la Difesa Ue – cresce anche il timore che queste risorse possano essere sottratte ad ambiti cruciali del welfare come la salute e l’accesso ai servizi sanitari.
In particolare, nelle province, la questione della sanità è spesso al centro delle preoccupazioni quotidiane dei cittadini, con liste d’attesa lunghe, difficoltà di accesso alle cure e criticità infrastrutturali nei nosocomi locali. Al tempo stesso, la crescente dipendenza da tecnologie digitali e reti connesse espone la società a nuove minacce ibride e cyberattacchi, ampliando la nozione di sicurezza ben oltre i confini tradizionali. Per approfondire questi temi, abbiamo incontrato Lorenzo Midili, esperto di cyberwar e difesa, nonché vice Commissario provinciale di Viterbo di Noi Moderati, per capire come bilanciare le esigenze di sicurezza europea con i bisogni primari dei cittadini italiani.
Con l’aumento della spesa per la Difesa nell’Unione europea, fino a un investimento complessivo previsto di circa 130 miliardi nel 2025, come può l’Europa garantire sicurezza senza sottrarre risorse a settori sociali essenziali come la sanità? È possibile conciliare entrambe le esigenze?
Sì, le due esigenze possono essere conciliate, ma a condizione di superare una visione meramente contabile della spesa per la Difesa e di adottare un approccio europeo realmente integrato. In primo luogo, la sicurezza non coincide esclusivamente con l’aumento degli stanziamenti militari. Un’Europa più sicura è anche un’Europa più resiliente sotto il profilo sanitario, energetico, tecnologico e sociale. Investire in sanità pubblica, ricerca biomedica, prevenzione e infrastrutture civili significa rafforzare la capacità degli Stati di affrontare crisi sistemiche, come la pandemia ha dimostrato in modo evidente. In questo senso, la spesa sociale è essa stessa una componente della sicurezza.
In secondo luogo, l’incremento degli investimenti nella Difesa può essere reso sostenibile solo attraverso una forte razionalizzazione a livello europeo. Oggi l’Unione soffre di una frammentazione inefficiente, come sistemi di approvvigionamento, duplicazioni industriali, interoperabilità limitata.
Una vera difesa europea, fondata su acquisti comuni, ricerca condivisa e standardizzazione, consentirebbe economie di scala significative, liberando risorse che potrebbero essere destinate ad altri settori essenziali, come la sanità e il welfare. Un ulteriore elemento è la qualità della spesa. Se le risorse per la Difesa vengono indirizzate verso tecnologie dual use – pensiamo alla cybersicurezza, alla logistica avanzata, all’intelligenza artificiale o alla protezione delle infrastrutture critiche – l’impatto positivo può estendersi anche al sistema sanitario e civile, migliorandone efficienza e capacità di risposta.
Infine, è decisivo il tema della governance fiscale europea. Strumenti comuni di finanziamento, sul modello di quanto sperimentato con il Next Generation EU, permetterebbero di sostenere investimenti determinanti senza gravare in modo sproporzionato sui bilanci nazionali e senza comprimere la spesa sociale. In assenza di una visione comune, il rischio è che siano proprio sanità e istruzione a pagare il prezzo più alto. La sicurezza e protezione sociale non sono obiettivi alternativi, ma complementari. L’obiettivo primario e principale per l’Europa non è scegliere tra armi e ospedali, bensì costruire un modello di sicurezza integrata che rafforzi al tempo stesso la difesa esterna e la coesione interna.
La percezione pubblica, soprattutto tra i cittadini delle province come Viterbo, è che la sanità locale presenti problemi concreti: liste d’attesa, accesso alle cure e carenza di personale medico. Dal punto di vista di un esperto di cyber war e Difesa, in che modo la sicurezza nazionale e la sicurezza sociale si intrecciano e quali priorità dovrebbero guidare le scelte di spesa pubblica?
La distinzione tradizionale tra sicurezza nazionale e sicurezza sociale è ormai superata. Le criticità che i cittadini percepiscono nella sanità locale, come liste d’attesa, difficoltà di accesso alle cure, carenza di personale, non sono temi “separati” dalla sicurezza, ma ne costituiscono una componente strutturale. Un sistema sanitario fragile è, innanzitutto, un fattore di vulnerabilità nazionale. Ospedali sottorganico, infrastrutture obsolete e processi inefficienti riducono la capacità di risposta a emergenze sanitarie, incidenti industriali, eventi climatici estremi o crisi ibride. Un esempio concreto, purtroppo tutt’altro che eccezionale, è quello dei cittadini inseriti nelle liste d’attesa che oggi, a ridosso del 2026, vivono una condizione incompatibile con un Paese avanzato. Persone affette da patologie anche serie che si recano al pronto soccorso e restano per ore su una barella in corridoio, in attesa che qualcuno possa occuparsene, perché mancano posti letto, mancano reparti disponibili, manca personale.
Accade che, anche di fronte a situazioni cliniche gravi, non vi sia la possibilità di un ricovero e il paziente venga rimandato a casa, con l’invito a “tenere sotto controllo” una condizione che, in realtà, richiederebbe cure immediate e continue. Allo stesso modo, non è accettabile che per una lastra, una radiografia o un esame diagnostico fondamentale si debbano attendere sei, otto mesi. In questi casi, il cittadino è spesso costretto a rivolgersi al privato, sostenendo costi elevati, non per una scelta, ma per necessità. Questo svuota di contenuto un diritto costituzionalmente garantito, quello alla salute, che non può dipendere dal reddito o dalla possibilità di anticipare una spesa.
Nella provincia di Viterbo la situazione è resa ancora più critica dalla conformazione territoriale. Molti anziani vivono in piccoli centri, difficilmente collegati, lontani dagli ospedali e dai servizi sanitari principali. Per queste persone, l’idea di assenza di una sanità territoriale efficiente non è solo un disagio, ma un concreto fattore di rischio per la loro sicurezza e la loro stessa vita. Resta fondamentale chiarire che i medici e il personale sanitario non hanno colpe. Operano in condizioni di stress costante, con organici insufficienti, turni massacranti, reperibilità continue. Gli errori e le criticità che talvolta emergono non sono il frutto di scarsa professionalità, ma della stanchezza fisica e mentale di esseri umani chiamati a garantire un servizio essenziale senza avere gli strumenti adeguati. Mettere i medici nelle condizioni di lavorare con serenità non è un favore alla categoria, ma una garanzia di sicurezza per i cittadini.
La pandemia da Covid ci ha insegnato una lezione chiarissima: con la salute non si scherza. Ha mostrato quanto un sistema sanitario fragile renda l’intero Paese vulnerabile. Per questo oggi parlare di sicurezza significa anche, e soprattutto, investire nella sanità pubblica, nel personale, nei territori. Non è una questione ideologica, ma di responsabilità istituzionale e di tutela dei diritti fondamentali. Dal punto di vista della cybersicurezza, poi, le strutture sanitarie rientrano oggi tra i bersagli più esposti agli attacchi informatici, accesso abusivo a dati sensibili sanitari, blocco dei sistemi informativi ospedalieri ecc… .
Difendere il Paese significa anche garantire che un ospedale possa continuare a funzionare, che i dati clinici siano protetti e che i servizi essenziali non vengano interrotti. In questo senso, sicurezza nazionale e sicurezza sociale si intrecciano su almeno tre livelli. Il primo è la resilienza, una comunità che ha accesso tempestivo alle cure, che si fida delle istituzioni sanitarie e che non vive la sanità come un percorso a ostacoli è una comunità più stabile, meno esposta a tensioni sociali e meno vulnerabile a campagne di disinformazione o destabilizzazione.
Il secondo è quello infrastrutturale e digitale. Investire in sanità significa anche investire in sistemi informatici sicuri, interoperabili e protetti, che sono una componente chiave della sicurezza cibernetica nazionale. Il terzo è il capitale umano, la carenza di personale medico e sanitario non è solo un problema sociale, ma una debolezza strategica, perché senza competenze non esiste né sicurezza né capacità di risposta alle crisi.
Quanto alle priorità di spesa pubblica, la chiave non dovrebbe essere una contrapposizione tra Difesa e sanità, ma un’integrazione delle politiche. Le risorse vanno orientate verso ciò che rafforza la resilienza complessiva del Paese, ovvero la sanità territoriale efficiente, digitalizzazione sicura dei servizi sanitari, protezione delle infrastrutture critiche, formazione del personale.
In altre parole, prima di chiedere ai cittadini di accettare maggiori sacrifici in nome della sicurezza, lo Stato deve dimostrare di saper garantire i diritti fondamentali, a partire dal diritto alla salute. Una sicurezza che trascura la sanità locale non è solo socialmente ingiusta, ma anche strategicamente miope. Oggi la vera difesa di un Paese passa tanto dai sistemi militari quanto dalla capacità di un pronto soccorso di funzionare, di un medico di essere presente e di un sistema digitale di non andare in blackout. Questa è la sicurezza che i cittadini percepiscono e che rende credibile ogni altra scelta di politica pubblica.
In termini di cybersecurity e minacce ibride, quali sono oggi i principali rischi che un paese come l’Italia e l’Unione europea devono affrontare? E perché la dimensione digitale della difesa è fondamentale per la sicurezza collettiva dei cittadini, anche in contesti non strettamente militari?
Oggi le principali minacce per l’Italia e per l’Unione europea non sono solo militari, ma ibride. Con questo, intendo far riferimento a attacchi informatici, pressione economica, disinformazione e sfruttamento delle fragilità sociali e istituzionali. Sul piano della cybersicurezza, i rischi più rilevanti riguardano gli attacchi alle infrastrutture critiche, sanità, energia, trasporti, pubblica amministrazione, il sabotaggio o il blocco dei servizi essenziali tramite ransomware, il furto e la manipolazione di dati sensibili, nonché le campagne di disinformazione che mirano a minare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni democratiche.
La dimensione digitale della difesa è fondamentale perché oggi la sicurezza collettiva si gioca, in larga parte, nello spazio cibernetico. Un attacco informatico a un ospedale, a un sistema di pagamento o a una rete energetica può produrre effetti paragonabili a quelli di un’azione militare, senza sparare un colpo. Proteggere il cyberspazio significa garantire la continuità dei servizi pubblici, la tutela dei diritti fondamentali e la stabilità sociale. Per questo la difesa digitale non è un tema tecnico riservato agli addetti ai lavori, ma una politica di sicurezza a tutela quotidiana dei cittadini. Rafforzare la cybersecurity europea vuol dire difendere la democrazia, l’economia e la vita di tutti i giorni, rendendo le nostre società più resilienti e meno esposto a forme di aggressione che agiscono sotto la soglia del conflitto armato.
Qual è, secondo lei, il ruolo dei cittadini comuni nel dibattito tra investimenti per la difesa e sostegno alla sanità pubblica? Cosa può fare la politica per far comprendere che la sicurezza moderna non riguarda soltanto i confini nazionali, ma anche la protezione delle infrastrutture critiche e dei diritti fondamentali di libertà e benessere?
Il ruolo dei cittadini è centrale, perché il dibattito tra investimenti nella difesa e sostegno alla sanità pubblica non è una questione astratta, ma incide direttamente sulla qualità della vita quotidiana. I cittadini, soprattutto nei territori che avvertono con maggiore forza le criticità dei servizi essenziali, sono i primi a percepire che sicurezza e benessere non possono essere separati. Attraverso la partecipazione informata, il confronto pubblico e il voto, essi contribuiscono a orientare le priorità politiche e a richiedere che le scelte di spesa siano coerenti con i bisogni reali delle comunità. Alla politica spetta il compito, oggi imprescindibile, di superare una narrazione semplificata e talvolta divisiva, che oppone difesa e sanità come se fossero interessi contrapposti.
È necessario spiegare con chiarezza che la sicurezza moderna non riguarda solo la tutela dei confini, ma la protezione delle infrastrutture critiche, la continuità dei servizi pubblici, la sicurezza digitale, la salute collettiva e, in ultima analisi, l’effettività dei diritti fondamentali. Quando un ospedale non funziona, quando un sistema informatico pubblico viene bloccato, quando la disinformazione mina la fiducia nelle istituzioni, la sicurezza dello Stato e quella dei cittadini vengono colpite nello stesso momento. Per rendere comprensibile questa visione, la politica deve investire in trasparenza e responsabilità, spiegare come vengono allocate le risorse, quali risultati si intendono ottenere e in che modo gli investimenti in difesa, soprattutto nella dimensione digitale e infrastrutturale, producano benefici anche in ambito civile e sociale. Solo così si può costruire un consenso maturo, fondato sull’idea che la sicurezza non è una sottrazione di diritti o risorse, ma una condizione necessaria per garantire libertà, benessere e coesione sociale.
Una democrazia solida si fonda su cittadini consapevoli e su istituzioni capaci di mostrare che difesa, sanità e diritti non sono capitoli alternativi di spesa, ma parti di un’unica strategia di protezione e sviluppo della comunità.
Aggiornato il 23 dicembre 2025 alle ore 12:21
