Marcello Veneziani, in un articolo apparso su Panorama il 15 dicembre 2025, ha il merito non secondario di aver riportato al centro dell’attenzione una questione decisiva, che l’Occidente contemporaneo sembra aver relegato nell’ombra: la questione dell’ateismo. Non si tratta di un tema marginale, né di una disputa confessionale; è, piuttosto, uno dei nodi teoretici su cui si è giocata e si gioca ancora l’autocomprensione dell’uomo occidentale.
L’analisi di Veneziani coglie con lucidità la distanza abissale che separa le forme storiche dell’ateismo — in particolare quelle maturate nell’Ottocento — dall’ateismo oggi dominante. Quando la negazione di Dio si configurava come il punto culminante della riflessione filosofica, essa faceva davvero tremare i polsi. E non poteva essere altrimenti. Non era in gioco soltanto la contestazione storica di una tradizione millenaria, né il semplice rigetto dell’eredità di secoli di teologia e metafisica. La posta era incomparabilmente più alta: sul piano teoretico, l’ateismo mirava a distruggere la possibilità stessa di un fundamentum inconcussum, di quel fondamento incrollabile su cui l’Occidente aveva edificato non solo la propria fede religiosa, ma l’intera architettura del pensiero filosofico e persino scientifico.
“La morte di Dio” annunciata da Nietzsche – e prima ancora indicata da Leopardi – non era una semplice asserzione de facto, una constatazione empirica della scomparsa della fede nelle coscienze moderne e quindi esposta in linea di principio ad un rovesciamento. Era una conquista de jure. Il pensiero nietzscheano riteneva di aver dimostrato l’impossibilità intrinseca dell’esistenza di alcunché di Immutabile, di aver fatto crollare non questo o quel dio particolare, ma l’idea stessa del divino come struttura necessaria dell’essere. La Götterdämmerung, il crepuscolo degli dèi, si presentava come esito inevitabile di un processo che il pensiero aveva portato fino alle sue estreme conseguenze.
In questa sede non importa accertare la fondatezza della tesi nietzschiana né ripercorrere l’itinerario speculativo che condusse a simili conclusioni. Importa invece comprendere – seguendo la linea indicata da Veneziani – che oggi di tutto questo non resta traccia. Ci si limita a una semplice “fede nella non esistenza di Dio”. L’ateismo è diventato un’ovvietà che non ha più bisogno di giustificazione filosofica, un dato acquisito che si respira come aria. “Atmosfera”, scrive giustamente Veneziani, ma un’atmosfera che non viene più interrogata.
Ed è precisamente qui che si manifesta il paradosso del nostro tempo: l’ateismo atmosferico si configura come una forma di bigottismo laico che replica, nella propria struttura intima, gli stessi meccanismi del bigottismo religioso. Il bigotto religioso ripete senza averne contezza i dogmi della tradizione. Non li interroga, non ne cerca il fondamento, non ne misura la verità. Li assume come evidenze che non richiedono dimostrazione, come certezze che precedono ogni domanda. La sua fede è cieca non perché sia priva di contenuto, ma perché si sottrae al vaglio del pensiero.
Il bigotto laico procede esattamente allo stesso modo. Fa della non esistenza di Dio un dogma. E qui occorre intendersi sul significato preciso di questa parola. Dogma non è semplicemente ciò che viene affermato con sicurezza, né ciò che costituisce il nucleo irrinunciabile di una dottrina. Dogma è, in senso rigoroso, tutto ciò che non si mostra nella sua innegabile verità. È qualcosa cui si attribuisce la dignità di verità, ma che rimane in realtà una nostra certezza, un nostro convincimento che non ha raggiunto il livello dell’evidenza apodittica. Il bigotto laico è certo che Dio non esista, con la medesima incrollabile sicurezza con cui il bigotto religioso è certo che Dio esista. Ma in entrambi i casi ci troviamo di fronte a una fede, non a un sapere fondato.
La differenza è che il bigotto religioso sa – o dovrebbe sapere – di credere. La fede religiosa ha da sempre riconosciuto il proprio statuto oscillante: credo quia absurdum, credere da ultimo significa, nonostante i tentativi di grandi teologi come Tommaso d’Aquino di conciliare fides et ratio, significa affidarsi a ciò che non può essere dimostrato.
Il bigotto laico invece si illude di sapere. Confonde la propria certezza con l’evidenza, il proprio convincimento con la verità che si impone al pensiero. Non riconosce che la negazione di Dio, se non è sostenuta da una dimostrazione rigorosa della sua impossibilità, resta un atto di fede rovesciato: non credo qui absurdum. Una fede che non osa dire il proprio nome, che si maschera da razionalità conquistata, da liberazione compiuta, da maturità intellettuale definitiva.
Il risultato è un dogmatismo inconsapevole, tanto più insidioso quanto più si presenta come assenza di dogmi.
L’ateismo atmosferico non viene discusso perché si presenta come l’aria stessa che si respira, come l’orizzonte ovvio entro cui si muove il pensiero contemporaneo. Ma un orizzonte non interrogato è precisamente un limite che imprigiona, una cornice che delimita senza giustificarsi. Il bigottismo laico è questo: l’incapacità di riconoscere che la propria negazione del divino non è una verità conquistata, ma una posizione assunta, una scelta che andrebbe fondata e che invece si accontenta di esistere come ovvietà condivisa.
Aggiornato il 23 dicembre 2025 alle ore 14:59
