L’utilizzo della genetica investigativa nel processo penale ha conosciuto, negli ultimi decenni, un’espansione esponenziale, trasformandosi progressivamente da strumento di identificazione individuale ad apparato probatorio di estrema complessità tecnica. In particolare, l’impiego di Dna a bassa copia (Low Copy Number – Lcn), di profili misti e del cosiddetto touch Dna ha ampliato enormemente le potenzialità investigative, ma ha al contempo moltiplicato i rischi di errore interpretativo e di sovrainterpretazione probatoria. Il dato genetico, da prova apparentemente “forte”, si rivela oggi uno degli elementi più delicati da maneggiare in sede processuale. Inferiori alle soglie tradizionalmente ritenute affidabili.
Questi campioni richiedono un elevato numero di cicli di amplificazione Pcr, con conseguente aumento del rumore di fondo, del rischio di drop-in (comparsa di alleli estranei), drop-out (perdita di alleli reali) e amplificazioni stocastiche. In tali condizioni, il profilo ottenuto non è una fotografia fedele dell’origine biologica, ma il risultato di una procedura fortemente condizionata da variabili tecniche e statistiche. L’illusione di precisione che accompagna il dato numerico maschera, in realtà, un significativo margine di incertezza. A ciò si aggiunge la crescente frequenza di profili genetici misti, ossia contenenti il contributo di due o più individui. La deconvoluzione di un profilo misto implica scelte interpretative rilevanti: numero dei contributori, peso relativo di ciascun contributo, selezione degli alleli considerati attribuibili a un soggetto piuttosto che a un altro.
Tali operazioni non sono mai neutre e possono variare sensibilmente a seconda del laboratorio, del software utilizzato e delle ipotesi preliminari formulate dall’operatore. La genetica forense, in questo ambito, non descrive un dato “oggettivo”, ma costruisce modelli interpretativi. Il touch Dna, ossia il Dna trasferito attraverso il semplice contatto con un oggetto o una superficie, accentua ulteriormente queste criticità. La letteratura scientifica ha dimostrato come il Dna possa essere trasferito indirettamente, persistere a lungo nel tempo e accumularsi su oggetti senza che vi sia un contatto diretto o recente con il soggetto cui il profilo viene attribuito. La presenza di Dna su un reperto non consente, dunque, di stabilire né il momento del deposito né la modalità del trasferimento, né tantomeno il coinvolgimento del soggetto in una specifica condotta criminosa.
Il rischio, in questi casi, è quello di trasformare una traccia di contatto in una prova di azione.
Proprio in ragione di tali criticità, le principali linee guida forensi internazionali – Enfsi, Isfg, Swgdam – insistono sulla necessità di un approccio estremamente prudente all’interpretazione dei profili complessi. Viene raccomandato di evitare conclusioni categoriche, di esplicitare sempre le assunzioni interpretative adottate, di utilizzare modelli statistici trasparenti e di distinguere rigorosamente tra fase analitica e fase valutativa. Le linee guida sottolineano inoltre che l’interpretazione del Dna non può prescindere dal contesto del caso, ma al contempo non può essere piegata alle esigenze narrative dell’accusa o della difesa.
Uno dei punti più frequentemente fraintesi nel dibattito processuale riguarda la distinzione tra “match”, “compatibilità” e “probabilità statistica”. Il termine “match”, pur ampiamente utilizzato nel linguaggio mediatico e talvolta anche negli atti giudiziari, è scientificamente fuorviante: suggerisce un’identità perfetta e binaria che raramente esiste nei profili complessi. Più corretto è parlare di “compatibilità” del profilo genetico del reperto con quello di un soggetto, ossia dell’assenza di elementi di esclusione. Ma la compatibilità, da sola, non dice nulla sulla forza probatoria del dato. La forza dell’evidenza genetica risiede nella valutazione probabilistica, espressa attraverso il Likelihood Ratio (Lr), che confronta due ipotesi contrapposte: l’ipotesi dell’accusa (il Dna proviene dall’imputato) e l’ipotesi alternativa (il Dna proviene da un soggetto ignoto). Il Lr non misura la colpevolezza, né la probabilità che l’imputato abbia commesso il reato; misura esclusivamente quanto i dati genetici siano più probabili sotto un’ipotesi piuttosto che sotto l’altra. Confondere il Lr con una probabilità di colpevolezza costituisce uno degli errori logici più gravi e diffusi, noto come prosecutor’s fallacy.
In ambito processuale, il rischio di sovrainterpretazione si manifesta quando il dato genetico viene isolato dal contesto, presentato come autosufficiente o espresso con formule suggestive (“compatibile in misura elevatissima”, “profilo altamente significativo”) prive di adeguata spiegazione metodologica. La Cassazione ha più volte richiamato la necessità di una valutazione critica della prova scientifica, ribadendo che anche il Dna, soprattutto quando complesso, deve essere sottoposto al vaglio dei criteri di attendibilità, verificabilità e coerenza logica, e non può mai essere assunto come prova legale.
Sul piano difensivo, la genetica investigativa avanzata offre ampi spazi di contestazione: dalla quantità e qualità del campione, alle soglie interpretative adottate, dalla scelta del modello statistico alla correttezza delle ipotesi formulate, fino al rispetto del contraddittorio negli accertamenti ex art. 360 c.p.p. Il consulente tecnico di parte assume un ruolo centrale nel decostruire l’apparente oggettività del dato e nel ricondurlo alla sua reale dimensione probabilistica.
Sul piano ricostruttivo, emerge chiaramente che la genetica investigativa contemporanea non costituisce una prova infallibile, ma uno strumento altamente sofisticato e strutturalmente vulnerabile, la cui affidabilità dipende in misura decisiva dalle scelte metodologiche operate lungo l’intero percorso analitico e valutativo. In presenza di Dna a bassa copia, di profili misti o di touch Dna, il dato genetico non si presenta come un risultato oggettivo e autoevidente, ma come l’esito di una serie di operazioni interpretative che non sono mai neutrali, poiché incidono direttamente sulla configurazione del profilo e sulla forza dell’evidenza. Il materiale biologico, in tali contesti, non racconta una storia univoca, ma fornisce indizi la cui significatività dipende dalle assunzioni adottate, dai modelli statistici impiegati e dal modo in cui le alternative vengono prese in considerazione. Ne deriva l’esigenza, per il diritto, di una lettura particolarmente cauta e rigorosa del linguaggio della scienza, consapevole dei suoi margini di incertezza, al fine di evitare che l’apparente oggettività del dato genetico si traduca in un surrogato della prova.
Aggiornato il 15 dicembre 2025 alle ore 13:38
