Nel suo intervento apparso sul quotidiano La Stampa il 24 novembre, Vito Mancuso affronta la questione del fine vita ponendo al centro la capacità dell’uomo di decidere della propria morte. La distinzione tra morte “naturale” — che semplicemente accade — e morte “culturale” — che l’uomo sceglie — costituisce il nucleo del suo discorso. “La cultura nasce ogni volta che si attivano l’intelligenza e la libertà”: è questa libertà, innalzata a fondamento assoluto, che per Mancuso deve governare anche l’estremo momento dell’esistenza.
La tesi che egli ne deriva è questa: una democrazia autentica deve garantire al cittadino la possibilità di vivere la propria morte in conformità ai principi che hanno guidato la sua vita. La dignità non precede la scelta: è la scelta. Il problema del fine vita, così posto, non richiede alcun criterio che stia al di là della volontà individuale. Ciò che conta è la coerenza tra il modo di vivere e il modo di morire. La democrazia deve essere l’ordinamento che consegna alla legge civile questa coerenza.
La richiesta di una normativa non nasce, in questa prospettiva, per regolare una materia difficile, ma per consegnare giuridicamente all’individuo ciò che egli ritiene già suo per diritto: il potere di definire il significato della fine, di trasformare la morte da evento biologico in atto deliberato, da destino in decisione.
La libertà è il fondamento, la democrazia il mezzo che ne sancisce l’effettività.
Nell’argomentazione di Mancuso la libertà appare come un contenuto immediatamente accessibile, un possesso interiore di cui l’uomo disporrebbe come dispone dei propri stati d’animo. Si presuppone che l’individuo, nel momento estremo del morire, possa invocare questa libertà per conferire senso al proprio atto finale. Ma questa libertà non appare empiricamente, non è un contenuto fenomenologico. È un presupposto — non ciò che si manifesta.
Ogni volta che si parla della libertà come se ne avessimo esperienza, si dimentica che l’esperienza — tutta l’esperienza — è il susseguirsi degli eventi. Nessun contenuto dell’esperienza appare come libero. Appare soltanto la sequenza degli accadimenti, il loro succedersi determinato. Eppure, dimenticando questo, si invoca la libertà come criterio ultimo per decidere della vita e della morte.
Ma ciò che non appare non può essere fondamento di nulla. La libertà non si presenta mai come tale nel divenire degli enti. Se apparisse, sarebbe anch’essa un ente determinato — vincolato, come ogni ente, alla necessità del proprio apparire. La libertà, per essere ciò che si pretende che sia, deve restare fuori dall’apparire. Ma ciò che resta fuori dall’apparire non è nulla di saputo. È, al più, un atto di fede.
Nella prassi, questa fede diventa un’ipotesi operativa: l’uomo deve credersi libero per potersi attribuire responsabilità e scelte. Ma deve crederlo — non lo sa. La libertà è un impegno che l’io prende con se stesso, non un contenuto conoscitivo capace di reggere il peso di una legislazione sulla morte.
L’argomentazione di Mancuso poggia interamente su questa libertà assunta come dato immediato: l’individuo sarebbe in grado di possedere la propria decisione come si possiede un oggetto. Ma questo significa porre l’uomo come causa di sé, come principio assoluto del proprio agire, come dominatore dell’ultimo istante del proprio destino. Nulla nell’apparire degli enti conferma una simile sovranità. È soltanto l’auto-attribuzione fidestica che l’uomo compie.
Già Kant, nella terza antinomia della ragion pura, aveva mostrato con rigore l’impossibilità che la libertà appaia nel campo dell’esperienza. Se la libertà apparisse, sarebbe un fenomeno — e dunque sarebbe determinata come ogni altro fenomeno. La libertà può essere soltanto pensata, mai data. Ciò che può essere soltanto pensato, senza possibilità di manifestarsi nella struttura dell’apparire, non è contenuto di sapere: è oggetto di fede.
La libertà, che in Mancuso dovrebbe essere il fondamento supremo, è dunque ciò che meno di ogni altra cosa può fungere da fondamento: un contenuto di fede, reso operativo dal bisogno pratico, non una verità capace di reggere il senso del morire (e del vivere).
L’intera costruzione dell’autodeterminazione perde così il proprio terreno. Ciò che pretendeva di essere principio primo è soltanto ciò che l’uomo pone in essere mediante un atto di fede — un atto che, proprio in quanto fede, testimonia l’assenza di ciò che vorrebbe fondare.
Ma si ponga pure che la libertà non sia un atto di fede. Si ponga che essa appaia effettivamente come contenuto dell’esperienza — che si presenti, cioè, come un ente tra gli enti, come qualcosa di cui si abbia esperienza diretta e certa. Si conceda dunque ciò che non può essere concesso: che la libertà sia.
Anche in questo caso, essa non potrebbe fungere da fondamento per la democrazia e per il diritto di autodeterminarsi nel morire. Perché, se la libertà appare, se è un contenuto positivo dell’esperienza umana, allora essa è ugualmente il fondamento di ogni scelta. Di ogni scelta — non soltanto di quella che istituisce la democrazia.
Se l’uomo è libero, è libero anche di scegliere di negare la libertà altrui. Se la libertà è il fondamento, essa fonda tanto la scelta democratica quanto quella anti-democratica. La libertà non può selezionare tra le proprie manifestazioni: non può dire che una scelta è più vera, più autentica, più degna di essere riconosciuta giuridicamente rispetto a un’altra. Se la libertà è fondamento, lo è di tutto ciò che l’uomo sceglie — compreso il negare ad altri la possibilità di scegliere.
L’argomentazione di Mancuso assume implicitamente che la libertà debba manifestarsi nella forma della democrazia, che il suo contenuto autentico sia il riconoscimento della libertà altrui, che la sua essenza consista nell’universalizzazione del diritto di scelta. Ma questa è già una scelta tra le scelte possibili. È già una determinazione particolare della libertà — non la libertà come tale.
Perché mai la scelta di lasciare liberi tutti — di istituire un ordinamento democratico che garantisca a ciascuno il diritto di autodeterminarsi — dovrebbe avere maggiore verità rispetto alla scelta opposta di togliere a tutti, o ad alcuni, questa libertà? Se la libertà è il fondamento, essa fonda entrambe le scelte con la stessa necessità. Fonda la scelta del legislatore che istituisce la democrazia e fonda la scelta del legislatore che la abolisce. Fonda la decisione di chi vuole morire come vuole e fonda la decisione di chi vuole impedirlo.
Non vi è, nella libertà come tale, alcun contenuto che la orienti verso la democrazia piuttosto che verso il dispotismo. La libertà, se è fondamento, è fondamento indifferente. È il principio astratto del poter-scegliere — ma non contiene in sé alcuna indicazione su cosa debba essere scelto. Non contiene alcuna norma, alcuna direzione, alcun criterio che permetta di distinguere tra una scelta giusta e una sbagliata, tra una scelta che merita riconoscimento giuridico e una che deve essere respinta.
L’appello alla libertà come fondamento della democrazia è dunque contraddittorio. Pretende di ricavare dalla libertà — che è pura possibilità indeterminata — un contenuto determinato: il dovere di rispettare la libertà altrui. Ma questo dovere non è contenuto nella libertà. È qualcosa che si aggiunge alla libertà, che la limita, che la vincola a una direzione particolare. È, in verità, una negazione della libertà come principio assoluto.
Se la libertà fosse davvero il fondamento ultimo, l’uomo sarebbe libero anche di negare la libertà — propria e altrui. Sarebbe libero di istituire un ordinamento in cui nessuno possa scegliere come e quando morire. Sarebbe libero di trasformare la democrazia in tirannia. E questa scelta avrebbe, dal punto di vista della libertà come fondamento, la stessa legittimità della scelta opposta.
Non si può fondare la democrazia sulla libertà senza ammettere, implicitamente, che qualcos’altro — un principio diverso, un contenuto ulteriore — orienta la libertà verso la democrazia e non verso la sua negazione. Ma allora non è più la libertà il fondamento: è questo principio ulteriore. E di questo principio Mancuso non dice nulla, perché la sua argomentazione si ferma alla libertà come se essa bastasse a se stessa.
La libertà, anche concessa come dato dell’esperienza, non può fondare alcun ordinamento determinato. Non può giustificare la democrazia più di quanto non giustifichi il suo contrario. È un principio vuoto, che si riempie soltanto attraverso scelte che, a loro volta, non possono appellarsi alla libertà per trovare la propria giustificazione.
Così la libertà, anche se apparisse, anche se fosse certa, anche se fosse posseduta come si possiede un oggetto, rimarrebbe incapace di fondare ciò che Mancuso pretende che fondi. Resterebbe principio muto, incapace di indicare una direzione, di stabilire un dovere, di giustificare la democrazia contro la tirannia o il diritto di morire contro il dovere di vivere.
Rimane da considerare un’ultima contraddizione — quella che appare quando si volge lo sguardo alla tradizione che Mancuso dichiara di abitare.
Egli si professa cattolico. Ma la libertà che invoca come fondamento ultimo — quella libertà che dovrebbe bastare a se stessa, che non richiederebbe alcun contenuto ulteriore per giustificare la scelta di morire — è precisamente ciò che il cattolicesimo nega come fondamento. Non si tratta di una divergenza tra posizioni teologiche diverse all’interno della medesima tradizione. Si tratta dell’opposizione tra due principi che si escludono reciprocamente.
Per il cattolicesimo la libertà separata dalla verità non è libertà autentica. È ciò che la dottrina nomina come arbitrio — il vuoto del poter-scegliere che non sa verso dove orientarsi, che non possiede alcun criterio per distinguere tra ciò che può essere scelto e ciò che deve essere respinto. Una libertà che pretenda di fondarsi su se stessa, senza alcun riferimento a una verità che la preceda e la orienti, è già negazione della libertà — è il puro divenire indeterminato che assume il nome di scelta senza esserlo veramente.
Giovanni Paolo II aveva scritto: “Non c’è libertà là dove non si accoglie la Verità”. Benedetto XVI: “Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L’amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente”. Francesco: “Si dovrà riconoscere che si oppone alla dignità umana tutto ciò che è contro la vita stessa, come ogni specie di omicidio, il genocidio, l’aborto, l’eutanasia e lo stesso suicidio volontario”.
Tre voci. Un’unica affermazione. La libertà non si autogiustifica. Non può porsi come principio assoluto. Richiede la verità che la renda possibile come libertà e non come mera oscillazione tra possibilità equivalenti.
E quale verità si tratta di riconoscere? Quella che riguarda la dignità della vita umana (che per il cattolicesimo è tale in quanto creata da Dio) — una dignità che non è posta dalla scelta, che non deriva dalla decisione dell’individuo, che non si costituisce attraverso l’atto di autodeterminazione. È ciò che precede ogni scelta. È il limite che nessuna scelta può varcare senza contraddire se stessa. Francesco scrive: “Aiutare il suicida a togliersi la vita è un’oggettiva offesa contro la dignità della persona che lo chiede, anche se si compisse così un suo desiderio”.
Si badi: anche se si compisse il suo desiderio. Anche se la persona sceglie. Anche se quella scelta appare come l’espressione più autentica della sua libertà. Anche se quella decisione è coerente con l’intera traiettoria della sua esistenza. La scelta non legittima ciò che viene scelto. Non tutto ciò che può essere voluto può essere giustificato per il cattolicesimo. La libertà non è il principio che rende vero ciò a cui si rivolge — è ciò che deve orientarsi verso la verità per essere autenticamente libertà.
Qui sta la frattura insanabile. Mancuso pone la libertà come ciò che fonda la dignità: la dignità è la scelta, è l’atto stesso del decidere. Il cattolicesimo pone la dignità come ciò che fonda il limite della libertà: la dignità precede la scelta e stabilisce ciò che non può essere scelto. Per Mancuso la libertà è il principio ultimo, che non richiede alcun contenuto ulteriore. Per il cattolicesimo la libertà richiede la verità — e senza verità cessa di essere libertà per diventare arbitrio.
Non vi è alcun passaggio intermedio tra queste due posizioni. Non vi è alcuna possibilità di mediazione. L’una afferma ciò che l’altra nega. L’una pone come fondamento ciò che l’altra respinge come insufficiente. L’una vede nella scelta la manifestazione della dignità — l’altra vede in certe scelte l’offesa alla dignità.
Mancuso sostiene: la democrazia deve garantire che ciascuno possa vivere la propria morte secondo i principi che hanno guidato la propria vita. Il cattolicesimo al contrario sostiene: vi è un principio che sta al di sopra di ogni principio individuale, una verità che precede ogni scelta personale, una dignità che non può essere violata nemmeno quando chi la possiede chiede che venga violata.
La libertà che Mancuso invoca — libertà assoluta, autosufficiente, principio ultimo — non è una libertà cattolica. È il suo opposto. È ciò che il cattolicesimo nomina quando vuole indicare la negazione della libertà autentica. È l’arbitrio che si maschera da libertà, il vuoto che si spaccia per pienezza, la scelta senza verità che pretende di essere fondamento di ogni diritto.
Chi si dichiara cattolico non può invocare questa libertà. Non può porla come fondamento del diritto di morire. Non può farlo — non per una questione di coerenza personale, non per un dovere di fedeltà istituzionale, ma perché affermare questa libertà significa negare ciò che il cattolicesimo afferma come verità. Significa porre un principio che quella tradizione respinge nel suo nucleo essenziale.
Mancuso non sta sviluppando una possibilità teologica inesplorata interna al cattolicesimo. Non sta interpretando in modo nuovo un contenuto antico. Sta affermando l’opposto. E lo fa mentre dichiara di appartenere alla tradizione che nega ciò che egli afferma. Questa non è una contraddizione accidentale, che si potrebbe risolvere con un chiarimento o con una distinzione. È la contraddizione tra chi sostiene che la libertà basta e chi sostiene che, senza verità, la libertà è nulla.
Naturalmente, tutto questo non significa affatto che il cattolicesimo cammini nel solco della verità, ma quantomeno il cattolicesimo mantiene una qualche forma di coerenza che al Mancuso sembra sfuggire completamente.
Aggiornato il 26 novembre 2025 alle ore 10:52
