Il blocco della mobilità

Vincoli e divieti soffocano la mobilità e creano scarsità artificiale, mentre la sentenza 163/2025 della Consulta smonta un sistema che blocca l’offerta invece di liberarla.

Da anni si parla di “emergenza taxi”, come se fosse un fenomeno meteorologico. In realtà, è l’esatto contrario: non c’è alcuna emergenza, è invece una scelta precisa. Una scarsità amministrativa costruita a tavolino che impedisce al mercato di rispondere alla domanda. Lo dimostra con numeri implacabili lo studio elaborato da Muoviti Italia e firmato dal suo portavoce, l’economista dei trasporti e docente alla Bicocca di Milano Andrea Giuricin, secondo cui l’apertura del settore taxi e Ncc genererebbe 2,4 miliardi di euro di fatturato, 85mila nuovi addetti e 500 milioni di gettito fiscale. Si tratta di numeri che non rappresentano scenari futuribili, descrivono piuttosto ciò che accadrebbe semplicemente lasciando funzionare la mobilità non di linea e astenendosi dall’interferire nel mercato.

Il quadro è noto, e tuttavia vale la pena ribadirlo: in Italia, come richiama lo studio indicato, le licenze taxi sono 28mila. In Francia sono 60mila, in Portogallo 21mila. Ma è il rapporto con la popolazione a fotografare la realtà: un taxi ogni oltre duemila abitanti. In Francia uno ogni 1.111, in Portogallo uno ogni 526. E allora non stupisce che a Roma e Napoli, nelle fasce orarie di picco, il 50 per cento delle richieste rimanga inevaso. Non perché gli utenti siano troppi: al contrario, perché l’offerta è paralizzata da vincoli amministrativi.

Lo stesso vale per gli Ncc. Mentre i citati Paesi europei hanno espanso il settore creando, rispettivamente, 56mila e 36mila nuovi operatori, l’Italia si ferma a circa 6mila driver, benché potrebbe averne 40mila in pochi anni con una riforma coerente. La domanda esiste già: è la normativa a impedirle di essere soddisfatta. E non per ragioni di sicurezza o qualità, ma per l’ossessione del controllo.

A complicare ulteriormente il quadro è sopraggiunto il Decreto Interministeriale 226/2024, un conglomerato di vincoli presentati come strumenti di ordine e rivelatisi invece funzionali a soffocare l’attività Ncc. Su questo punto è intervenuta in modo decisivo la sentenza n. 163/2025 della Corte costituzionale, che ha annullato tre capisaldi del decreto e delle relative circolari.

Il primo ha riguardato il famigerato vincolo dei venti minuti tra prenotazione e inizio della corsa, applicato ai servizi che partono da luoghi diversi dalla rimessa. La Consulta lo ha definito senza mezzi termini una misura sproporzionata, priva di base normativa e idonea solo a riprodurre – con altro nome – l’obbligo di rientro in rimessa già dichiarato incostituzionale nel 2020. Una norma che non tutela i taxi: semplicemente impedisce ai driver Ncc di lavorare. E con un effetto collaterale evidente: auto costrette a girare a vuoto senza poter attendere il cliente, congestione inutile, inquinamento aumentato, costi crescenti. In pratica, la burocrazia riesce sempre a trasformare un problema inventato in un disastro reale.

Secondo punto colpito: la disciplina dei contratti di durata. Imporre che non possano stipularli soggetti che svolgono “anche indirettamente” attività di intermediazione significa, di fatto, escludere hotel, agenzie di viaggio, tour operator. La Corte ha riconosciuto che questa limitazione non ha nulla a che vedere con la concorrenza e finisce per ostacolare accordi volontari che offrirebbero ai clienti un servizio più efficiente, prevedibile e più accessibile. L’ossessione anti-mercato porta così a colpire proprio chi il mercato lo usa, lo sostiene e lo fa funzionare.

Terzo colpo: l’obbligo di utilizzare solo la piattaforma informatica ministeriale per il foglio di servizio elettronico. Su questo fronte il Giudice delle leggi è stato altrettanto netto, riconoscendo la violazione della neutralità tecnologica, l’eccesso di potere e la creazione di un monopolio digitale inutile e dannoso. In concreto ha sancito che lo Stato non deve scegliere quale tecnologia debbano utilizzare operatori privati, né imporre un unico software proprietario. Una gestione aperta, interoperabile e accessibile sarebbe più efficiente e più rispettosa dell’iniziativa privata, oltre che pienamente compatibile con gli obiettivi di trasparenza e controllo.

L’insieme di questi vincoli rivela un dato politico essenziale: nella mobilità urbana si teme più la libertà economica che l’inefficienza. Ogni nuova licenza è percepita come una minaccia, ogni driver aggiuntivo come un intralcio, ogni innovazione come un rischio. E così si difende l’esistente anche quando l’esistente produce: code infinite, attese, disservizi, mancate opportunità, costi occulti, perdita di competitività turistica.

Lo studio di Muoviti Italia e la sentenza della magistratura costituzionale convergono su un punto decisivo: il mercato non genera il problema, lo risolve. La scarsità deriva da scelte amministrative, l’offerta è frenata da vincoli artificiali e ciò che oggi non funziona non dipende dai servizi, ma dalle norme che li imbrigliano.

L’Italia potrebbe liberare valore, lavoro, investimenti e qualità urbana semplicemente smettendo di impedire ciò che funzionerebbe da solo. La mobilità non è un privilegio corporativo: è un servizio essenziale che nasce dall’incontro spontaneo tra domanda e offerta. Ogni volta che lo si impedisce, il prezzo lo pagano tutti: cittadini, turisti, imprese, città.

E finché la politica continuerà a difendere il principio della scarsità invece di abbracciare quello dell’apertura, il Paese resterà fermo. Non per mancanza di mezzi, bensì per eccesso di divieti. La vera riforma è semplice: togliere gli ostacoli. Il resto lo farà la libertà di chi lavora.

Aggiornato il 24 novembre 2025 alle ore 11:33