Renato Cortese: vittima di un “mondo al contrario”

La storia del dottor Renato Cortese non è solo la cronaca di una carriera sfolgorante, dedicata con rigore e coraggio alla lotta contro le mafie, ma è diventata un amaro e sconcertante capitolo giudiziario italiano. Una vicenda che molti definiscono il paradigma di un “mondo al contrario”, dove l’integrità viene punita e il codice d’onore piegato da ricostruzioni processuali grottesche.

IL SEQUESTRO INESISTENTE E LA CONDANNA SCONCERTANTE

Il fulcro dello scandalo è la cosiddetta “vicenda Shalabayeva” del 2013, un episodio che ha visto il prefetto Cortese (allora dirigente di polizia) coinvolto nell’espulsione, in tempi rapidissimi, di Alma Shalabayeva, moglie dell’oligarca kazako Mukhtar Ablyazov, e di sua figlia. Ablyazov, un ex banchiere ricercato per frode internazionale e spacciatosi per oppositore politico (su cui gravavano diverse richieste di estradizione), è la figura centrale. La Procura ha contestato a Cortese e ai suoi collaboratori il reato di sequestro di persona per le modalità con cui fu eseguita l’espulsione.

La tesi dell’accusa: l’azione sarebbe stata viziata da una volontà di compiacere le autorità kazake, trasformando di fatto un’espulsione amministrativa in un sequestro illegittimo.

La difesa e la storia reale: Cortese ha sempre sostenuto la correttezza formale e sostanziale dell’operato, mosso dalla priorità di eseguire un provvedimento di espulsione in un contesto di alta pressione internazionale. La difesa contesta l’esistenza stessa del reato di sequestro, assente nei fatti.

Il percorso giudiziario: il processo è stato un vero e proprio testacoda italiano. Assoluzione in primo grado, condanna in appello, annullamento con rinvio da parte della Cassazione e, infine, una ricondanna nel processo di Appello bis. Una sentenza che è apparsa ancora più assurda perché la stessa Procura Generale aveva ritenuto il reato insussistente.

In sostanza la vicenda ha fatto a pezzi la carriera dell’uomo che catturò Bernardo Provenzano dopo 8 anni di indagini. E che in Sicilia, in Calabria, a Roma e poi da questore di Palermo, ha solo combattuto a viso aperto mafie e poteri di ogni risma.

LA CARRIERA SRADICATA: L’UOMO CHE SFIDÒ LA MAFIA

L’ingiustizia di questa condanna risuona in modo ancora più stridente se si considera il calibro del poliziotto in questione. Renato Cortese non è un poliziotto qualsiasi; è una delle figure più celebrate e incorrotte nella storia recente della Polizia di Stato. 

La cattura di Provenzano (2006): il suo nome è indissolubilmente legato alla cattura di Bernardo Provenzano, il capo di Cosa Nostra latitante per 43 anni. Un’indagine meticolosa, basata su metodo, intuito e dedizione maniacale, che ha segnato uno dei trionfi più significativi dello Stato contro la mafia.

Il contesto operativo: dalla Sicilia alla Calabria, da Roma alla Questura di Palermo, Cortese ha operato sempre e solo con il Codice e la Costituzione come strumenti, scontrandosi a viso aperto contro poteri criminali e deviati di ogni colore. La sua intera carriera è un monumento all’integrità. Questa condanna, che ha avuto un effetto devastante sulla sua carriera e sulla sua vita, è percepita come una punizione non per un reato commesso, ma per una fedeltà allo Stato che, in un certo contesto, si è rivelata scomoda o fraintendibile.

COSA CI RESTA DI QUESTA STORIA?

La vicenda Cortese, minuziosamente ricostruita anche nel libro L’Ostaggio che lo ha apertamente difeso, solleva domande fondamentali sulla giustizia italiana e sul meccanismo mediatico-giudiziario.

L’attacco all’integrità: resta la sensazione che una parte del sistema ‒ composta da alcuni pm, alcuni giudici, alcuni giornalisti e una fetta della politica – abbia montato ad arte una narrazione per difendere gli interessi di un oligarca e non la verità.

Il prezzo dell’eccellenza: la storia di Cortese diventa un monito sul prezzo che l’eccellenza, il rigore e la lotta senza quartiere contro i poteri forti possono costare in Italia. Un poliziotto integerrimo, che ha dato tutto per la legalità, si ritrova con la carriera distrutta e il suo onore in discussione.

Il monito istituzionale: questa vicenda è l’ennesimo scandalo di un Paese che, a tratti, appare disperante. È un appello a ristabilire la verità dei fatti e a proteggere chi, come Cortese, ha onorato la divisa e la nazione.

La condanna di Renato Cortese, per molti, non è la fine di una storia giudiziaria, ma l’inizio di una riflessione necessaria e urgente su quale tipo di Stato vogliamo essere: quello che onora i suoi eroi, o quello che li condanna in un assurdo “mondo al contrario”.

Aggiornato il 21 novembre 2025 alle ore 12:51