Il fattore religioso nelle tensioni che attraversano le democrazie occidentali

Dalla fine della Seconda guerra mondiale fino a oggi la religione ha continuato ad agire in modo silenzioso, ma persistente, sulle tensioni sociali e politiche nelle democrazie occidentali. Anche quando la secolarizzazione sembrava averla relegata nella sfera privata, in Occidente il cristianesimo, l’ebraismo e l’islam hanno continuato a fornire linguaggi, simboli e identità attraverso i quali le società si sono raccontate o divise. La loro influenza, seppur in modi diversi e talora nascosti, è stata uno dei fattori più duraturi di orientamento e conflitto all’interno dello spazio democratico. Nel secondo Dopoguerra il cristianesimo rappresentò la base morale e culturale dell’ordine liberaldemocratico ricostruito in Europa. I partiti di ispirazione cristiana – dalla Democrazia cristiana italiana alla Cdu tedesca – furono protagonisti del compromesso tra libertà economica e giustizia sociale, nonché dell’integrazione europea. In quegli anni la religione non era percepita come un problema, ma come una garanzia di equilibrio contro le ideologie totalitarie del secolo precedente. In America, la religione svolgeva un ruolo analogo, fungendo da collante patriottico nella contrapposizione con l’ateismo sovietico.

L’ebraismo, uscito decimato dalla Shoah, trovò nel Dopoguerra un nuovo radicamento civico: in Europa come memoria e ammonimento morale, negli Stati Uniti come parte viva del tessuto democratico e del movimento per i diritti civili. L’islam, invece, era nelle società occidentali pressoché invisibile. In Europa cominciavano a giungere lavoratori maghrebini e turchi per la ricostruzione industriale, ma la loro presenza era percepita in termini economici, non culturali. Erano “ospiti temporanei”, non ancora comunità radicate. Tutto cambiò a partire dagli anni Ottanta, anche grazie alla visibilità che la ricchezza e gli stili di vita occidentali iniziarono ad avere nel mondo islamico. Iniziò in quegli anni quel processo migratorio che ha poi progressivamente contribuito a trasformare le nostre società in senso multietnico e multireligioso. La combinazione di fattori demografici, economici e simbolici trasformò poi a sua volta la religione da sfondo a elemento di frattura. Il cristianesimo, nella sua versione cattolica già da tempo in calo di praticanti, perse gradualmente il monopolio etico e divenne sempre più un riferimento identitario. Anche se la rivoluzione culturale del ‘68, la liberalizzazione dei costumi e la crisi della famiglia tradizionale in Europa avevano già iniziato a spingere le chiese cristiane, soprattutto quella cattolica e i movimenti evangelici, a ridefinire il proprio ruolo nella sfera pubblica, dopo gli anni Settanta il cristianesimo restò comunque un riferimento e continuò a influenzare i dibattiti su bioetica, scuola e simboli religiosi, anche se questo non impedì la perdita di centralità della fede tradizionale.

Nello stesso periodo, negli Stati Uniti la “Moral Majority” e poi la “Christian Coalition” unirono la religione alla politica, facendo dei temi morali – aborto, educazione sessuale, matrimonio – il cuore delle Culture Wars. L’ebraismo seguì un percorso diverso, ma parallelo, e mantenne a lungo un ruolo progressista e civico, impegnandosi nella difesa dei diritti e nella promozione del pluralismo. In Europa, invece, riemersero ciclicamente forme di antisemitismo, spesso mascherate da ostilità politica verso Israele. Dalla Guerra dei sei giorni del 1967 in poi il conflitto israelo-palestinese si rifletté sempre più nelle opinioni pubbliche europee e a partire dagli anni Duemila la radicalizzazione islamista e l’esplosione dei social network diedero nuova visibilità a stereotipi e ostilità antiebraiche. Dopo il 7 ottobre 2023 l’antisemitismo, sia in Europa e sia negli Stati Uniti, ha toccato livelli che non si vedevano dagli anni Quaranta, segno eloquente che era sempre rimasto vivo sotto le ceneri dell’olocausto nella coscienza occidentale, pur rafforzandosi decisamente dopo gli anni Ottanta, quando la presenza della religione islamica nelle società occidentali ha iniziato a crescere in modo significativo. Fino agli anni Settanta la sua presenza era stata numericamente limitata, socialmente marginale e politicamente trascurabile. Era la religione dei lavoratori ospiti, poco visibile nello spazio pubblico, integrata nel sistema produttivo, ma senza costituire un riferimento nel discorso identitario. Ma dagli anni Ottanta in poi la stabilizzazione demografica di queste comunità, la nascita delle seconde generazioni e la costruzione di spazi religiosi autonomi resero l’islam una componente stabile e visibile delle società occidentali.

Contemporaneamente, la rivoluzione iraniana del 1979, il risveglio islamico in molti Paesi mediorientali e l’avanzare della globalizzazione mutarono la percezione dell’islam in Occidente: non era più solo una religione privata di immigrati, ma costituiva un fenomeno politico e culturale che non poteva più essere trascurato e che alcuni iniziavano ad avvertire come potenzialmente conflittuale con i propri valori e le proprie tradizioni. Negli anni Novanta e Duemila l’islam divenne così il nuovo terreno di scontro simbolico. La fine della Guerra Fredda tolse agli occidentali il nemico ideologico tradizionale e il dibattito si spostò su quello culturale: l’Occidente giudaico-cristiano iniziò ad essere contrapposto a un islamismo percepito sempre più come pericoloso e destabilizzante. I media e la politica costruirono e assecondarono questa percezione, nonostante che fosse da molti considerata infondata. Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 e quelli successivi in Europa la presenza islamica nelle società occidentali venne sempre più percepita in questo modo e i libri e gli scritti di Oriana Fallaci ne attestano esaurientemente le ragioni, in modo schietto, lungimirante e talora provocatorio. Le comunità musulmane europee, sempre più radicate, cominciavano infatti a rivendicare visibilità e riconoscimento, generando conflitti sulla laicità e sui simboli religiosi.

Dalla legge francese del 2004 sul velo islamico alla controversia svizzera sui minareti, dalla questione del burqa ai dibattiti sull’ora di religione, l’islam entrò nel cuore della politica europea. È in questa fase che si gettano le basi delle grandi manifestazioni che in questi giorni sono protagoniste nelle piazze e nelle strade occidentali: cortei oceanici contro l’immigrazione islamica, organizzati da movimenti nazionalisti, e altrettanto imponenti manifestazioni a difesa dei diritti dei migranti e del pluralismo religioso. Questi movimenti non nascono da un improvviso aumento di fede o di ostilità, ma da una trasformazione strutturale: l’islam è divenuto lo schermo su cui le società occidentali proiettano le proprie paure, i propri sensi di colpa e le proprie divisioni. Non sarebbe dunque il fattore religioso in sé a generare il conflitto, ma la difficoltà dell’Occidente nel conciliare la propria eredità cristiana con la secolarizzazione interna e con il pluralismo religioso. Il cristianesimo, da fondamento del consenso democratico, è diventato così un marcatore culturale; l’ebraismo, da coscienza morale, è tornato a essere minoranza vulnerabile; l’islam, da religione marginale, è divenuto il perno simbolico delle tensioni identitarie. Tutte e tre le religioni, in modi diversi, rivelano in questo senso la fatica dell’Occidente nel definire se stesso come spazio laico e pluralista o come civiltà che continua a riconoscersi, almeno culturalmente, nelle sue radici religiose.

L’esplosione di manifestazioni contrapposte attorno all’immigrazione islamica è quindi solo l’ultima espressione visibile di un processo più lungo e profondo: quello di una civiltà che, pur dichiarandosi post-religiosa, continua a leggere il mondo attraverso categorie religiose. Nel Dopoguerra la fede univa; oggi la sua ombra divide. Ma in entrambi i casi la religione resta lo specchio più fedele delle ansie e delle speranze dell’Occidente. Tuttavia, se per un verso questa ricostruzione può risultare obiettiva ed equilibrata, in realtà contiene una premessa errata, che da sola è in grado d’invalidarla. Questa premessa è costituita dal dare per scontato che un vero pluralismo religioso sia possibile in società in cui l’ondata migratoria sembra inarrestabile e dove l’alto grado di natalità che caratterizza le comunità islamiche rispetto a quelle cristiane o a-religiose tende a esaltare alcune caratteristiche intrinseche dell’islamismo che non sono facilmente assimilabili all’interno delle società liberaldemocratiche. Sebbene le proiezioni statistiche suggeriscano un quadro controverso, se già oggi molti Governi occidentali incontrano notevoli difficoltà a contenere e gestire le tensioni interreligiose che si sono sviluppate all’interno delle rispettive società civili, una volta che la componente islamica dovesse continuare a crescere con la stessa progressione degli ultimi venti anni l’auspicato pluralismo, sia in campo religioso sia in campo politico, verrebbe messo probabilmente a rischio. Il fatto che non esista alcun vero pluralismo religioso nelle attuali società islamiche, che il numero dei cristiani e degli ebrei che ci vivono sia negli ultimi decenni massicciamente diminuito, dovrebbe far riflettere, così come dovrebbe far riflettere l’alto livello d’intolleranza per ogni tipo di minoranza.

Una società autenticamente multireligiosa e tollerante non può nascere accrescendo ogni anno il numero delle persone che non hanno una storia di tolleranza religiosa alle spalle, né una formazione culturale che la renda possibile. Richiederebbe invece sul campo, ovvero nei Paesi di origine, un previo lavoro culturale che educhi davvero al rispetto di visioni del mondo diverse, laiche o religiose che siano, così da gettare le premesse per una convivenza civile con i cittadini dei Paesi d’accoglienza. Senza questo passaggio e senza questa mediazione nei Paesi d’origine – che potrebbe essere, almeno in alcuni casi, attuata concordando con loro processi educativi e scolastici condivisi, al termine dei quali potrebbe essere garantita una migrazione sicura e tutelata – qualsiasi politica dell’inclusione rischia solo di rivelarsi demagogica, strumentale e destabilizzante per tutte le democrazie occidentali, anche se forse è proprio ciò che auspicano i sostenitori di un’accoglienza indiscriminata, senza un filtro culturale alla fonte e senza regole in grado di controllarla e circoscriverla.

Aggiornato il 30 ottobre 2025 alle ore 10:26