La geografia religiosa dei conflitti dopo la Seconda guerra mondiale

Negli ultimi ottant’anni il volto della guerra è cambiato. Dal 1946 a oggi, secondo i dati del progetto Ucdp/Prio, il mondo ha conosciuto centinaia di conflitti armati, molti dei quali circoscritti, ma lunghi e ricorrenti. Se si osserva il quadro complessivo dall’immediato dopoguerra a oggi, i paesi a maggioranza cristiana e quelli a maggioranza musulmana sono presenti in proporzioni simili nei teatri di guerra, ma restringendo l’analisi agli ultimi decenni il loro coinvolgimento si differenzia in modo netto e impressionante. Fino agli anni Settanta gran parte dei conflitti avveniva in paesi a maggioranza cristiana o in aree ex coloniali di Africa e America Latina, dove guerre civili e rivoluzioni interne avevano spesso una matrice politica o ideologica più che religiosa. Con il crollo dei blocchi contrapposti e la fine della Guerra fredda, il baricentro della violenza si è progressivamente spostato verso l’area mediorientale e asiatica, dove prevale la fede islamica. I numeri parlano chiaro: dagli anni Ottanta in poi, la maggior parte dei conflitti armati attivi nel mondo si è verificato in paesi di religione musulmana, mentre meno del 10 per cento ha riguardato paesi a maggioranza cristiana.

Il resto è distribuito tra Stati a prevalenza induista, buddista o laica. Le ragioni di questa sproporzione sembrano essere a molti più di carattere politico-economico che non religioso. Nelle aree a maggioranza islamica si concentrano alcune delle più gravi crisi di stabilità del pianeta: guerre per il controllo delle risorse energetiche, rivalità etniche e confessionali, interferenze esterne e fragilità istituzionali croniche. Dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Siria allo Yemen, dal Sudan alla Somalia, passando per Pakistan, Mali e Libia, il mondo islamico è stato teatro quasi ininterrotto di guerre civili, interventi stranieri e rivolte interne. Sebbene non sia trattato prevalentemente di un conflitto dell’Islam contro il mondo, ma piuttosto di una frattura interna al mondo musulmano stesso, dove i contrasti tra sciiti e sunniti, tra modernità e tradizione, tra regimi autoritari e fazioni armate hanno prodotto una continua instabilità, la nascita di movimenti e gruppi come Al Qaida e l’Isis ha però negli ultimi decenni conferito un significato diverso all’impatto che la religione islamica ha avuto su molti conflitti. Al contrario di quanto avvenuto nel mondo islamico, la gran parte dei paesi a maggioranza cristiana ha conosciuto nel medesimo periodo un lungo ciclo di pace interna. L’Europa, dopo i Balcani degli anni Novanta, fino all’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia, non ha più ospitato guerre su vasta scala; le Americhe, salvo casi isolati come la Colombia, hanno vissuto conflitti a bassa intensità.

All’interno di questo quadro Israele, unico Paese a maggioranza ebraica, dal 1948 a oggi è stato impegnato in diverse guerre, ma il suo peso statistico rimane minimo sul totale globale, appena uno o due punti percentuali; mentre i paesi induisti e buddisti, pur teatro di guerre importanti come quelle tra India e Pakistan o i conflitti civili in Sri Lanka e Myanmar, restano anch’essi minoritari nel computo generale. Per quanto riguarda invece la differenza tra mondo cristiano e mondo musulmano, se si guarda l’intera storia dal 1946 in poi, il coinvolgimento di queste due religioni nei conflitti risulta piuttosto equilibrato, ma se facciamo riferimento agli ultimi quattro decenni emerge una marcata concentrazione dei conflitti nelle aree islamiche. Sebbene essi riflettano le tensioni geopolitiche e le fragilità istituzionali dei paesi coinvolti, non si può affatto escludere che tali fragilità siano connesse anche con il tipo di fede religiosa predominante: oggi, tre quarti delle guerre del pianeta si combattono in paesi dove la maggioranza della popolazione è musulmana, mentre il mondo cristiano è coinvolto direttamente nei conflitti molto di meno, pur considerando che il numero di cristiani nel mondo è calcolabile in un ordine di grandezza di due miliardi e quattrocento milioni di persone, in pratica circa quattrocento milioni in più dei musulmani, che tuttavia sono in continua ascesa.

In sintesi, dunque, tra tutte le religioni presenti nel mondo, dopo il 1980 il Cristianesimo è stato presente in circa l’8 per cento dei conflitti; l’insieme di buddismo, induismo e religione Sick in circa il 10-15 per cento del totale, mentre la religione islamica risulta coinvolta in circa il 75 per cento delle guerre complessive. Si tratta, a ben vedere, di una differenza che dovrebbe indurre qualche ulteriore riflessione e un esame più approfondito di quanto non si faccia abitualmente sui media occidentali, in particolare su quelli televisivi. Potremmo quindi chiederci: cosa è cambiato dopo il 1980? Un’ipotesi plausibile potrebbe essere, per esempio, che la globalizzazione mediatica abbia prodotto una sorta di shock culturale del mondo islamico. Negli anni Ottanta, infatti, mentre le grandi potenze uscivano dall’orbita della Guerra fredda e l’Occidente entrava nell’era postindustriale, un’altra rivoluzione, silenziosa ma più profonda, stava cominciando: quella mediatica. Le antenne satellitari e, in seguito, Internet spalancarono per la prima volta le porte delle case musulmane al mondo occidentale. Non fu un contatto politico o militare, ma immaginario e visivo Le immagini dei canali europei e americani, con i loro linguaggi, la pubblicità, la libertà dei costumi, l’ostentazione della ricchezza, dei corpi e del piacere, raggiunsero le famiglie dei paesi islamici in un momento in cui i governi controllavano ancora rigidamente la comunicazione interna. Ciò che in Occidente appariva come semplice intrattenimento, in molte società del Medio Oriente e del Nord Africa venne percepito come un’offesa morale e spirituale. Quelle immagini rovesciavano i parametri tradizionali di ciò che era lecito o proibito, giusto o peccaminoso, e arrivavano non come eccezioni, ma come spettacolo quotidiano della modernità.

Per milioni di giovani musulmani, nati in contesti di povertà e regimi autoritari, la televisione satellitare fu insieme una finestra e una ferita: mostrava la prosperità di chi non rispettava le regole divine e la frustrazione di chi, pur osservante, restava ai margini del progresso. Tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta la diffusione dei canali Mbc, Orbit e poi di Al Jazeera trasformò il mondo arabo in uno spazio informativo unitario, ma anche contraddittorio: la voce della religione e quella del consumismo cominciarono a convivere sullo stesso schermo. Questa ambiguità generò un nuovo tipo di conflitto, non tra stati ma tra visioni del mondo. In molti ambienti religiosi si radicò l’idea che la superiorità economica e tecnologica dell’Occidente non fosse un segno di civiltà, bensì la prova della sua decadenza morale e della sua fragilità. L’arrivo di Internet, tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila, amplificò ulteriormente la frattura. Per la prima volta le popolazioni musulmane poterono comunicare liberamente con l’esterno, organizzarsi, scambiare idee e accedere a contenuti prima censurati. La rete divenne uno strumento di emancipazione e, al tempo stesso, di radicalizzazione.

Le stesse piattaforme che permisero le Primavere arabe nel 2011 servirono anche a diffondere i messaggi dei movimenti jihadisti, che seppero interpretare il disagio identitario trasformandolo in ideologia militante. Quello che appariva come un progresso tecnologico universale fu in realtà un cortocircuito culturale e l’effetto complessivo fu simile a quello che l’invenzione della stampa ebbe sull’Europa del Cinquecento: la circolazione improvvisa di idee e simboli destabilizzò le gerarchie e contribuì indirettamente a provocare una lunga stagione di risentimento e desiderio di rivalsa presso una buona parte del mondo islamico, che fu portato così a radicalizzarsi. Tra gli anni Novanta e Duemila la vocazione “blasfema” della cultura e della civiltà occidentale risultò evidente per buona parte del mondo islamico e la globalizzazione mediatica rese visibile una disuguaglianza economica che venne percepita come ingiustizia, suscitando un senso di umiliazione e un desiderio di riscatto, stati d’animo questi che invece non sembravano rilevanti nelle monarchie teocratiche arabe dove queste differenze erano e sono ancor più evidenti. Alla luce di queste circostanze, è chiaro che la maggior parte dei conflitti esplosi dopo il 1980 non sono imputabili solo a lotte per il potere o per le risorse, ma devono essere letti anche come reazioni al trauma culturale della modernità. L’Occidente, senza volerlo, ha mostrato un mondo dove ciò che era più sacro per l’Islam sembrava destinato a dissolversi. A sua volta l’Islam, reagendo, ha cercato di riaffermare la centralità della propria concezione del divino nella società di fronte alla minaccia percepita di un attacco culturale da parte del mondo occidentale.

Il risultato di questa reazione è stata la lunga stagione di instabilità che ancora oggi caratterizza molte aree geografiche. Se dagli anni Ottanta del secolo scorso in poi vi è stato un crescente coinvolgimento della religione islamica in molti e diversi scenari di guerra, questa circostanza dovrebbe quindi suggerire un esame più approfondito di quanto è successo in questo periodo senza scivolare in semplificazioni sommarie, ma partendo comunque da considerazioni più ampie che riguardano il ruolo e lo spazio che la libertà di coscienza, e dunque anche quella civile e politica, trovano nel contesto delle diverse concezioni religiose della vita individuale, della società e dello Stato. Qui risiede infatti la differenza essenziale tra le democrazie liberali e i paesi autocratici o teocratici, ma anche quella che sussiste tra ebraismo e cristianesimo da un lato e l’islamismo dall’altro, differenza che costituisce la causa prima di molti conflitti a sfondo religioso in corso e anche di molte inquietudini e tensioni presenti nelle società occidentali.

Aggiornato il 27 ottobre 2025 alle ore 11:33