
Privarsi dell’uso della tecnologia è un sollievo. Riportare il suo utilizzo a una misura che non eccede i confini della possibilità per la quale è stata creata è la missione dell’uomo libero. La tecnica dovrebbe essere strumento, ma anche nella sua funzione strumentale, si rivela sempre parte di una serie più ampia perché costantemente il suo utilizzo si trascende e rimanda a una dimensione ulteriore, il mondo intero della tecnica, il cui scopo è quello di inglobare l’esperienza umana nella sua interezza. La tecnica è totale, non è uno strumento parziale, nemmeno quando è utilizzata come singolo utensile, ad esempio quando guidiamo l’automobile o parliamo al cellulare, perché costantemente l’artefatto tecnico si supera in una totalità che è rimando ad altri dispositivi, i quali costituiscono un immane organismo artificiale che pretende di inglobare ogni aspetto della vita umana. È questo il fine della tecnica, il suo volto asettico che tradisce, malgrado l’opacità dello sguardo, quasi una volontà, una quasi soggettività, quella che vuole circondare in maniera totale le possibilità esistenziali dell’uomo e sostituire la natura con un mondo nuovo in cui non si esca mai dal fondo sordo del suo dispiegarsi. La civiltà europea pensava di affrancarsi dalla lotta al male e dalla necessità nel suo ricorso alla tecnica, invece ha snaturato se stessa perché l’uomo europeo non è stato più lo stesso.
L’uomo europeo era l’uomo della ricerca della libertà e del dimorare con il suo spirito presso le fonti limpide in cui sgorgano bellezza e sapere, ma da quando ha evocato la tecnica non è stato più questo il suo destino. La tecnica altera questo destino perché crea una gabbia di ferro dentro la quale l’individuo sente di essere accudito, protetto, garantito nella sua essenza, ma tale promessa si rivela un’abbacinante illusione che porta l’uomo vicino alle regioni del nulla. Il nulla come assenza di bellezza e sapere travolge ciò che rimane della civiltà europea, creando una bolla annichilente che sommerge l’esperienza umana in un dispositivo che non ha fine e che accomuna i singoli esseri all’appartenenza di uno stesso scopo e di un medesimo orizzonte. L’orizzonte è quello che la tecnica impone, non si può uscire mai dalla modalità di esistenza in cui la tecnica si rivela substrato modale di quasi ogni azione. La tecnica sovrasta e accompagna ogni attimo della giornata, essendo utensile impiegato, da impiegare o che è stato impiegato e dunque da riprendere, oppure utensile che costituisce il medium della comunicazione; un rapporto con l’altro che perlopiù, nel mondo del lavoro o della vita personale, è mediato dal mezzo tecnico sempre più digitalmente indotto, come se la persona fosse avviluppata da una spessa membrana costituita dal parassitario mezzo tecnologico che però solo dal dispositivo tecnico stesso può essere superato. L’immane utilizzo della tecnica ha lo scopo di accumulare le energie umane al massimo grado per creare valore materiale, ma al contempo nega le possibilità di realizzazione spirituale. Per questo l’uso inconsapevole della tecnica porta alla noia, o allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. L’uso inconsapevole della tecnica distrugge la forma della vita compiuta, il rapporto con il sapere e con la bellezza, le due forme che custodiscono l’uomo in un rapporto più prezioso con l’assoluto. La tecnica cancella i riti, le azioni, i gesti e l’esplorazione dell’uomo nel mondo, crea un uomo meno denso e meno compiuto, annulla la sua presenza in mezzo alla possibilità del reale e lo rende, paradossalmente, schiavo del tempo che resta. Il tempo che resta è una durata alienante, perché l’uomo viene svuotato della sua soggettività e della libertà necessaria per costituire gli alberi intricati simbolo delle sue possibilità in divenire, così l’uomo non ha più la forza di uscire dall’annichilente gabbia che lo circonda e che diventa il suo medium, il suo apparato di mediazione con l’esterno, con l’altro da sé.
Il godimento della natura è cancellato, così come le ore misurate della giornata, che mettevano, un tempo, l’uomo in relazione con la dimensione naturale, vengono annientate e rimodulate nell’assenza di soggettività progettante. Il tempo che resta è inconsistente, anche se non poche sono le ore che la tecnica restituisce alla soggettività che vorrebbe ancora essere estatica, proiettata verso la trascendenza eppure si trova inchiodata a possibilità sempre più limitate; inoltre, il tempo che resta esige un sacrificio perché la tecnica libera energie eccedenti che non sono rimesse a disposizione del sé. Queste energie trasformate in potenza sono destinate ad accumularsi nel sistema di sfruttamento capitalista dell’utile, perché la tecnica è strettamente alleata della logica del guadagno smodato, e così cresce il tempo falsamente liberato dalla tecnica ma cresce anche lo sfruttamento dell’uomo che non ha certo più possibilità di quante ne avesse prima. La tecnica libera con una mano, anche se libera da gesti, divertimenti e riti quotidiani che certo non erano senza senso, e con l’altra, che ha appena sancito un patto mortale con la logica dell’utile, destina questo eccesso di tempo al suo riutilizzo nelle dinamiche dello sfruttamento capitalista. L’uomo ha perso il suo contatto con la natura, il suo rapporto con le strade del mondo, con i libri che raccontavano i misteri di altri tempi e con gli animali che lo nutrivano e lo accompagnavano nel suo viaggio per la terra, e ha creato un miserabile senza più scopo in balia della muta logica della tecnica. Il tempo che resta dovrebbe essere al servizio della libertà umana, della sua ricerca di senso nel mondo come anche del suo tentativo di plasmare una realtà più adatta e sicura per lui, invece questo tempo è impiegato totalmente nel dispositivo tecnico a tutti i livelli, quello della comunicazione, come nel lavoro, nel tempo libero e nello spostamento. Il tempo dell’uomo è ipotecato, è trattenuto, è consumato dall’agire tecnico in un tempo che non è più umano, ma è della macchina che consuma in maniera completa le energie umane. Si arriva al punto che l’uomo esiste per far funzionare l’immenso apparato tecnico, è un ingranaggio che serve per mantenere vive le macchine, il suo tempo è quello che serve per tenere acceso il funzionamento di questa enorme serie di artefatti costruiti in apparenza per servire l’uomo, in realtà per farsene nutrire costantemente con la presenza che la soggettività umana dimostra alla tecnica.
La tecnica avrebbe dovuto liberare, sempre se l’idea dei suoi patrocinatori illuministi si fosse trattata di autentica promessa di libertà, invece ha creato tanti schiavi, tanti automi biologici dei due grandi poteri automatici del mondo contemporaneo, l’utile e la stessa tecnica che si saldano in una gabbia d’acciaio da cui è quasi impossibile fuggire. Ma fuggire verso dove? La terra è invasa dal dispositivo tecnico, ne è saturata, e gli altri uomini sono generalmente sotto il giogo del suo inesausto operare. Non esiste una terra libera in cui fuggire. Si dovrebbe tornare nel passato. Il mondo è colonizzato, segnato, marcato dalla sorda alleanza tra mercato e tecnologia, e più avanza il tempo più questa situazione drammaticamente peggiora. La tecnica ha cancellato la ciclicità dell’esistenza, il lento procedere della giornata tra incontri, necessità, lunghi percorsi, rapporti con la natura, apertura dell’essere all’arte e alle sue polimorfiche manifestazioni, ricerca del sapere, per fare di tutto questo alienazione, perdita della soggettività e delle possibilità che la soggettività ha di realizzare il suo desiderio. Nella sua presa totalizzante, la tecnica è un falso mito proiettato verso un punto di progresso che si rivela inconsistente. Forse non si tratta di fuggire, ma di alleggerire il peso con cui la tecnica grava sull’esistenza dell’uomo che rimane. Liberarsi dalla tecnica è salvezza, ma è salvezza a patto che si abbia consapevolezza di sé. Perché come si è detto, accanto allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, nel dispiegarsi del mondo tecnico vi è anche la possibilità della noia.
Si tratta di due scenari. Se la necessità prevale, si ha una dinamica servo-padrone in cui per strabilianti casi del destino un individuo è stato premiato dall’immane apparato tecnico con la rosa del comando; le altre schiere di genti non hanno che da seguire, e lavorare e magnificare beni che appartengono al padrone e che a loro sono semplicemente esteriori. La necessità preme, e per vivere un uomo deve mettere a disposizione la sua forza lavoro nelle mani di chi ha lo scettro del potere economico. Questo è il caso generale, anche se esiste un’alternativa. L’alternativa esiste ed è quella in cui la necessità viene tenuta in disparte. Perfino in questo tempo così materialista è rimasto qualcuno che ha la possibilità di vivere nell’agio e di non dover provvedere al suo sostentamento – anche se, in fondo, il sogno segreto del capitalismo è di mandare tutti a lavorare – ci può essere del privilegio residuo, tramandato come da altre epoche dell’umanità più felici e ridenti, affinché nell’equazione servo-padrone ci siano dal lato dei servi invece di servi uomini liberi. Ma per fare cosa di questa libertà? La tecnica affranca molto tempo e lo mette a disposizione di chi può permetterselo, di chi può pagare per quell’eccesso di tempo. In genere sono i capitalisti ad avvantaggiarsi del tempo altrui, ma ci possono essere delle zone di privilegio. Qualcuno può avere il privilegio di godere di un’enorme quantità di tempo libero. Ma è un privilegio insidioso perché quando il tempo non è consumato, ecco il proliferare della noia. Arthur Schopenhauer ha dedicato pagine magistrali sull’argomento. La noia è energia vitale che si rivolge contro se stessa, perché non impiegata. La noia può distruggere una persona, perché la pulsione vitale che non è stata sublimata verso forme più compiute dell’essere rimane in uno stato metastabile che può implodere su di sé, non avendo un oggetto verso cui dirigersi.
La noia è pericolosa, può essere il peggior nemico dell’uomo che ha il tempo al suo fianco, è uno stato che paralizza l’essere in un torpore in cui è difficile progettare un’alternativa a quello stato presente, che però il soggetto vorrebbe costantemente superare. Per certi versi sarebbe preferibile lavorare che incancrenirsi nei vizi dell’ozio, anche se esiste una maniera per trasformare la noia in progetto virtuoso, e cioè far sparire l’energia irrisolta e non legata alla forma per farla diventare progetto più complesso di crescita spirituale: la ripresa della via dell’uomo europeo tradizionale. Di quale arcano percorso si tratta? Quella del cammino verso le strade dell’assoluto. L’uomo europeo, sin dal fondamento greco del suo manifestarsi, è un uomo che vive per contemplare le forme dell’assoluto. Un uomo gode dell’assoluto quando spende la sua vita per l’arte o per la ricerca del sapere, entrambi manifestazioni di questo assoluto come riteneva Friedrich Schelling, tale è la via europea verso la felicità più raffinata. Ripercorrere la strada dell’uomo europeo tradizionale è il passare i propri giorni a rileggere i filosofi del passato, a studiare le conoscenze più elaborate, intricate e ricche di significato, a perdersi nei mondi delle teorie estetiche e delle grandi opere d’arte che questo assoluto, il primato del dio, vuole raccontarci. La grande via tradizionale dell’uomo europeo è il solo modo per sfuggire all’abbraccio mortale della tecnica e del capitalismo feroce; dedicare se stessi alle forme del bello, alla conoscenza del mistero, a essere uomini validi cercando di seguire gli esempi di virtù dei grandi che ci hanno preceduto.
L’uomo libero può voltare le spalle alla tecnica, certo a una sua parte costitutiva, non interamente, altrimenti ricadrebbe nell’età della pietra, per ritrovare la strada della virtù e della forza dei suoi antenati amanti delle muse e delle saggezze di Esiodo e di Omero. Liberarsi dalla tecnica, con la consapevolezza adeguata dell’uomo maturo che si spinge sulle orme dei suoi formidabili predecessori, è salvezza dunque, è ripresa delle proprie possibilità, è vita piena di essere, realizzazione dello scopo per cui l’uomo si trova nel mondo, dunque destino ontologico umano che supera l’alienazione della perdita di sé e riporta l’esperienza vitale nelle regioni dell’autenticità dei propri giorni. Privarsi della tecnica e del suo abbraccio nullificante è possibilità di aderire a una libertà che abbraccia direttamente l’esplorazione del mondo per sottrarre l’individuo alle logiche di alienazione e per aprire zone di pensiero libero; rinnegare l’eccesso di tecnologia e la sua bolla annichilente, certo non in maniera totale, è la maniera per ridare sostanza al desiderio di vivere fino in fondo l’essere che ci è stato concesso. Privarsi dell’uso smodato della tecnica e dei suoi artefatti è tornare ad abitare il mondo nel suo valore trascendente e impegnare concretamente il tempo del nostro vivere libero.
La via dell’uomo europeo tradizionale è stata quella di produrre arte e sapere, ma oggi la tecnica ha fatto rimuovere l’uno e l’altro dall’orizzonte dell’esistenza perché ciò che l’uomo deve produrre è invece il perpetuarsi e il proliferare del farsi del dispositivo tecnico, oltre che la crescita dell’utile al servizio di pochi. Laddove era arte, spazio del racconto, letteratura da vivere, condivisione della conoscenza, adesso vi è solo gabbia dell’operazione, dell’esecuzione dello strumento tecnico nel mondo onnipervasivo che la serie degli strumenti tecnici stessi creano. Ci spostiamo con automobili, comunichiamo con dispositivi digitali, la sera ci rinfranchiamo davanti alla televisione, la nostra vita è medicalizzata; si vuole innanzitutto che il corpo funzioni, per questo il sistema tecnico della medicina ci riempie di farmaci e prescrizioni come se volesse fissare il nostro corpo a un attimo eterno, ideale inconsistente perché nessuna scienza ha il potere di realizzarlo. Recuperando lo spirito dell’uomo europeo tradizionale, si può ritrovare anche lo spirito primitivo, fondativo dell’esperienza tecnica e del suo manifestarsi, in armonia con il percorso virtuoso del sapere e della produzione consapevole di arte.
Un’esperienza tecnica che all’inizio non era totale, ma impegnava il tempo e le energie solo di una parte finita dell’esistenza. La tecnica era strumento, ma non pretendeva di disporsi in una serie infinita dietro cui l’uomo avrebbe perso i suoi giorni e la sua energia, sostituendo l’abbraccio certo a volte anche rude della natura con un mondo costantemente da vivificare con la forza intelligente della libertà umana e della sua energia da presentare davanti allo strumento tecnico. La tecnica era una parte del sistema, e di certo il suo presentarsi era da accogliere con un certo ottimismo nel momento in cui alcune possibilità esistenziali erano facilitate, come quella di vestirsi o nutrirsi, spostarsi o comunicare. Ma la missione originale è andata ben oltre. L’utilizzo tecnico ha cambiato antropologicamente l’ordine del tempo pratico. Si è lasciato sviluppare il dispositivo tecnico senza controllo, fino al punto che non è più la natura che ci circonda ma il mondo dell’artefatto. Il mondo sarebbe andato in un’altra direzione se questa tecnica fosse stata affiancata da una consapevolezza che ne avesse misurato i passi. Non bisogna utilizzare tutto il potere tecnologico che abbiamo a disposizione, solo perché lo abbiamo a disposizione o solo perché può facilmente essere venduto dagli agenti del mercato; ci vuole una misura nell’utilizzo della tecnica, un impiego intelligente che non oltrepassi il ragionevole e che non faccia dispiegare forze incontrollabili che mettano sotto scacco il destino umano. Pensiamo a quale armonia e possibile vivere più compito sia quello in cui accanto alla via dell’uomo europeo tradizionale si dia un uso misurato, non empio della tecnica.
L’uomo avrebbe la possibilità di avvicinarsi alle cime dell’universo con la forza del suo pensiero, e allo stesso tempo la possibilità di appoggiarsi al fermo bastone della tecnica che potrebbe assisterlo nei momenti più difficili del cammino, certamente a patto che il bastone non voglia mai diventare intero orizzonte e dunque far impiegare le energie umane nel dominio totalizzante del dispiegarsi tecnico a costo di rinnegare il cammino verso virtù e conoscenza. Invece, la società va sempre più verso la logica dell’impiego e dello sfruttamento totale delle energie umane ad opera della tecnica e della volontà faustiana utilitarista che la alimenta. Il sistema capitalista forte dell’apparato tecnico, senza il quale avrebbe avuto molte difficoltà a dispiegarsi, tende con una ineffabile inerzia verso la restrizione delle possibilità materiali dell’individuo, riducendo il margine in cui il lavoro ha la possibilità di guadagnare: in parole pratiche, l’aumento del costo della vita. Il capitalismo dello sfruttamento ci vuole tutti ingranaggi e possibilmente produttori di un pensiero ridotto ai minimi termini, e soprattutto incapaci di reagire alla dinamica dell’aumento di ricchezza che premia pochi a discapito della collettività.
Se il potere d’acquisto cala drammaticamente, come si vede ogni giorno nella vita pratica, sarà necessario provvedere a più risorse e quindi si dovrà aumentare anche lo spazio del lavoro a danno del tempo libero che un tempo poteva essere dedicato all’edificazione di sé stessi, pur considerando il fatto che la tecnica libera spazio dalle incombenze e dalle necessità della vita pratica. Anche se si ha più tempo a disposizione, il paradosso è che questo sistema vuole gli individui totalmente occupati, con l’apparato tecnico che impiega tutte le energie umane senza farle uscire da questo percorso. Il tempo è saturato dall’agire tecnico, nel tempo del lavoro come in ciò che resta del tempo libero, senza possibilità di dedicare se stessi a sforzi creativi. L’arte è cancellata perché il substrato materiale che la sosteneva non esiste più, perché il sistema faustiano dell’utile e della tecnica crea persone con sempre meno possibilità materiali in modo da tenerle assoggettate al suo dominio. Il vecchio privilegio materiale che poteva creare l’uomo contemplativo viene meno. La volontà che è fondamento della tecnica e dell’utile ha deciso di colpo che l’unica cosa che conta è produrre, lavorare e vivere sempre più soli, attorniati dal nulla e da un mare di tecnica, che sono una e la medesima cosa, quasi una negazione del sistema dell’assoluto di Schelling. Ma non sempre è stato così. Un tempo c’era la comunità inoperosa, nel castello, nella casa del signore o del borghese attento alle arti, perfino nella dimora del contadino che la sera voleva rinfrancarsi con le storie o con i canti popolari, perché nel tempo anteriore alla tecnica l’individuo voleva incontrare amici, compagni dopo una giornata di lavoro e dilettarsi nella condivisione delle opere dello spirito.
In quel tempo più denso, più vicino al cuore dell’uomo, l’eccedente, lo spazio ulteriore al tempo del lavoro era dedicato a sé stessi, alla riflessione, alla meditazione, alle lettere e alla letteratura, all’ascolto della musica e all’appuntamento con le persone più brillanti e ricercatrici del buono e del bello; adesso questo spazio di incontro è stato eliminato perché l’unica cosa che conta, per questo sistema, è il farci recuperare energie con un po’ di televisione e una chiacchiera ed effetti speciali di qualche film senza senso in modo da essere di nuovo operativi nella vita che verrà l’indomani. È lo squallore che un sistema immemore del bello ha creato condannandoci tutti a una vita più misera, e da cui, a giudicare dalle condizioni materiali di questo tempo, sarà molto difficile rialzarsi.
Aggiornato il 17 ottobre 2025 alle ore 12:57