Garlasco e la sua apoteosi

Ovvero il Giudizio definitivo: tra verità assoluta e verità possibile

La sentenza penale, una volta passata in giudicato, sancisce una verità assoluta e intangibile. Tuttavia, è proprio dal dubbio e dalla non accettazione che può nascere una verità possibile che restituisca dignità alla verità, è questo quanto ci prospetta il fatto Garlasco.

La vicenda di Garlasco va a toccare uno dei caposaldi del diritto penale, la certezza, che avviene quando la sentenza è passata in giudicato. Infatti, quando una sentenza penale diventa definitiva, la verità processuale si fa legge con un atto solenne e intangibile per garantire stabilità e certezza, ma non spegne le controversie. Al contrario, essa può dare avvio a una verità possibile, meno solenne, più umana e attendista di quella assoluta, dove il dubbio non è più un’anomalia, ma una delle possibilità per avvicinarsi alla verità reale. Una verità che si richiama all’onestà intellettuale, all’apertura e a una scelta che non sa di debolezza, ma di coraggio e alla presenza del dubbio nel compiere il cambiamento.                    

In passato il giudizio era pronunciato “in nome di Dio”, avvolto da sacralità; oggi è espressione laica della sovranità popolare (articolo 1) e dei principi di uguaglianza e imparzialità (articoli 3 e 101), fondata sul principio ’“oltre ogni ragionevole dubbio” (articoli 24 e 27). Ma la domanda rimane, la verità processuale coincide davvero con quella reale? La condanna, pronunciata “in nome del Popolo Italiano” (articolo 101), non è solo un atto giuridico ma anche morale e sociale che afferma il potere del Popolo voluto in base a scelte democratiche. Quando emerge un errore, non basta il sigillo del giudicato, esso deve essere corretto e ineccepibile per restituire dignità al dichiarato innocente e alla coscienza collettiva su cui la sentenza va a gravare.                                                               

Questa considerazione dovrebbe valere anche per il nostro sistema penitenziario dove il proclamarsi innocente non porti all’esclusione dei benefici della legge 354/75 in quanto chi rifiuta la condanna non può ammettere la colpa e senza ammissione di colpa non vi è pentimento necessario per ottenere i benefici per cui va a scontare così una “doppia pena”, quella del giudizio e quella  della derivante dalla negazione dei benefici penitenziari.                                                                                                                                          

Nascono così due verità assolute che si ignorano: quella del giudicato e quella della dichiarata innocenza. Ma se entrambe fossero riconosciute come verità possibili quindi meno solenni ma più umane e aperte al dubbio e al cambiamento, allora la giustizia ritroverebbe la sua voce più autentica. Solo unendo queste verità al coraggio di chi cerca giustizia oltre la sentenza definitiva si potrà costruire un terreno d’incontro, anche burocratico, capace di ridurre tempi, conflitti e disperazioni, restituendo alla giustizia il suo volto più umano.                                                                                                                                          

L’assenza di questa prospettiva, la verità possibile, ha spesso esiti drammatici: il suicidio in carcere, che non è mai un fatto isolato, ma genera dolore collettivo e logora anche chi vigila, in particolare i giovani agenti di Polizia Penitenziaria, spesso soli e privi di supporto. La legge peraltro impone all’agente di intervenire nell’incertezza tra vita e morte (articolo 40 e 593 del Codice penale), ma questo obbligo lascia segni profondi: l’errore può diventare trauma, punizione, ferita morale, persino abbandono della divisa.                                                                                                

Accogliere la verità possibile non è debolezza, ma scelta di civiltà. Accogliere la verità possibile come modus naturale di operare, è già in Cicerone “Probabile est, quod plerumque fit” (De Inventione, I, 29), che indica come negativo, nel giudizio umano, la certezza sia assoluta, maggiormente se velata di dogmatismo.

La giustizia si liberi della vecchia idea di solennità fatta di riti e distanze, e si apra ai tempi nuovi. L’autorevolezza non derivi più da un’aura sacra, ma dalla solidità delle prove e dalla coerenza dei giudizi. Si mostri non come un’entità astratta, ma come un’istituzione fatta di giudici-persone, capaci di fondare il proprio prestigio sulla logica, sulla trasparenza e sulla giustizia sostanziale. Si rinunci ai formalismi vuoti e si misuri sulla forza delle evidenze e sulla capacità di autocorreggersi, dove il correggere l’errore non è vergogna ma è vergogna non correggere l’errore.                                                                            

Così anche l’Amministrazione Penitenziaria dovrebbe privilegiare la presenza qualificata nelle sezioni e non soffermarsi essenzialmente sui numeri, peraltro necessari, ma che questi numeri siano accompagnati da operatori preparati ad evenienze non consuetudinarie, offrendo servizi e protocolli che sostengano sia gli operatori che i detenuti nel loro lavoro e nelle difficoltà di vita in carcere, riducendo conflitti e aumentando il senso di utilità che può avvenire se si pone attenzione all’offerta di servizi che è nella 354/75.

Chiudere un fascicolo non significa archiviare la ricerca della verità. Al contrario, è il coraggio di inseguire una verità possibile, consapevoli che pena e giudizio non sono dogmi. Come ricordava Voltaire: “La verità è figlia del tempo, non dell’autorità”. La giustizia più forte è quella che sa correggersi, risparmiare vite e trasformare detenuti a rischio in persone utili. E proprio di oggi, mentre si riapre e si revisiona un processo già cassato da anni alla luce di nuove prove, si dimostra che la giustizia non può restare immobile dietro un giudicato assoluto: deve aprirsi alla possibilità di rivedere, riconoscere e correggere.

Certo, la ricerca di altre verità può mettere in discussione la certezza del diritto e sollevare dubbi sul comportamento processuale precedente, ma rappresenta l’unica via per restituire dignità all’innocente e credibilità all’intero sistema. Solo così il giudizio definitivo smette di essere un sigillo intangibile, una verità intoccabile, per riaprirsi alla nuova verità. Per questo è essenziale che diventi energia testimoniale di una giustizia viva e capace di rinnovarsi, senza remore e pregiudizi atavici consolidati nel tempo dove l’intangibilità del giudicato era intoccabile. Il coraggio e senso di responsabilità, travalichi il consueto e codificato metodo che ha nel mandato Costituzione un supporto nell’agire che è nel nome e nell’interesse del Popolo che rappresenta e alcontempo abitua le coscienze verso un senso collettivo del giudicato che è di una società che sa e vuole e non può rinunciare alla verità.

Aggiornato il 09 ottobre 2025 alle ore 11:24