
La vicenda delle cosiddette flotillas dirette verso la Striscia di Gaza si colloca entro un’area di forte tensione del diritto internazionale contemporaneo, poiché implica un bilanciamento tra la libertà di navigazione sancita dal diritto del mare, le regole del diritto internazionale umanitario in caso di conflitti armati, il divieto dell’uso della forza stabilito dalla Carta delle Nazioni Unite e le prerogative inerenti alla sovranità statale. La questione non può essere ridotta a un mero contrasto politico-diplomatico, ma deve essere inquadrata tecnicamente in termini di conformità o meno del blocco navale imposto da Israele ai parametri giuridici internazionali. In primo luogo, l’articolo 87 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 (Unclos) sancisce la libertà di navigazione quale principio cardine dell’alto mare, disponendo che “il mare aperto è aperto a tutti gli Stati” e che le navi vi godono del diritto di navigare senza restrizioni. L’articolo 92 precisa che le navi in alto mare sono sottoposte alla giurisdizione esclusiva dello Stato di bandiera. Pertanto, in via di principio, Israele non potrebbe esercitare poteri coercitivi nei confronti di imbarcazioni civili dirette verso Gaza e battenti bandiera straniera.
L’unica eccezione riconosciuta dal diritto internazionale positivo è rappresentata dal blocco navale quale misura bellica, disciplinata dal diritto internazionale consuetudinario e sistematizzata dal San Remo Manual on International Law Applicable to Armed Conflicts at Sea del 1994. Il Manuale, all’articolato compreso tra i paragrafi 93 e 104, stabilisce le condizioni di liceità del blocco: esso deve essere debitamente dichiarato e notificato agli Stati interessati e agli organismi internazionali competenti (paragrafo 93); deve essere effettivo, ossia mantenuto da una forza navale capace di impedirne la violazione (paragrafo 95); deve applicarsi in modo non discriminatorio (paragrafo 100); non deve avere come scopo quello di affamare la popolazione civile o di privarla di beni essenziali alla sopravvivenza, né può ostacolare l’accesso agli aiuti umanitari neutrali sotto controllo internazionale (paragrafi 102-104). Israele, a partire dal 2007, ha dichiarato il blocco e ne ha garantito l’effettività sul piano operativo, rispettando dunque i requisiti formali della notifica e dell’efficacia.
Il punto critico riguarda la compatibilità del blocco con le prescrizioni inderogabili del diritto internazionale umanitario, in particolare con il divieto di punizioni collettive sancito dall’articolo 33 della IV Convenzione di Ginevra del 1949. La Commissione d’inchiesta istituita dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite nel 2010, a seguito dell’incidente della Mavi Marmara, qualificò il blocco come misura illegittima, in quanto volto a colpire l’intera popolazione civile di Gaza mediante la privazione di beni indispensabili, e dunque assimilabile ad una punizione collettiva. Diversamente, il Rapporto Palmer del 2011, predisposto su incarico del segretario generale delle Nazioni Unite, concluse che il blocco, finalizzato ad impedire il traffico di armi e materiali bellici verso gruppi armati attivi a Gaza, era conforme al diritto internazionale, pur rilevando l’uso eccessivo della forza nell’abbordaggio della flottiglia. Questo contrasto dimostra come la valutazione di liceità dipenda dall’applicazione del principio di proporzionalità, cardine del diritto internazionale umanitario consuetudinario. Un blocco è lecito se strettamente necessario ad un obiettivo militare legittimo (impedire l’afflusso di armi), e se nel contempo non pregiudica in modo sproporzionato la sopravvivenza della popolazione civile.
Laddove, come attestato da numerosi rapporti delle Nazioni Unite e di organizzazioni indipendenti, il blocco comporti la limitazione di generi alimentari, medicinali e carburante, esso travalica i limiti della necessità e proporzionalità, configurandosi come misura illecita. Dalla liceità o meno del blocco discendono conseguenze determinanti. Se il blocco è valido, Israele può legittimamente fermare in alto mare le navi che tentano di violarlo, catturarle e sottoporre passeggeri ed equipaggi a procedimento giudiziario, in conformità con la disciplina internazionale e interna. Se il blocco non è valido, ogni intercettazione costituirebbe violazione della libertà di navigazione garantita dall’Unclos e, se accompagnata da uso della forza contro navi straniere, violazione dell’articolo 2, paragrafo 4, della Carta delle Nazioni Unite, che vieta la minaccia e l’uso della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica degli Stati. La prassi e la dottrina prevalenti riconoscono che un attacco ad una nave equivale ad un atto rivolto contro lo Stato di bandiera, con la possibile qualificazione di atto di guerra.
In definitiva, la flottiglia diretta a Gaza si colloca in una zona di frizione del diritto internazionale, in cui la legittimità delle condotte dipende integralmente dalla valutazione giuridica del blocco israeliano. Sotto il profilo formale, i requisiti di dichiarazione ed effettività sono rispettati; sotto il profilo sostanziale, invece, vi sono forti elementi per ritenere che l’impatto sulla popolazione civile ecceda i limiti di proporzionalità e necessità, inclinando verso l’illiceità della misura. Se così è, ogni azione intrapresa da Israele per far rispettare il blocco si traduce in violazione della libertà di navigazione e, nei casi più gravi, in uso illecito della forza internazionale. La vicenda evidenzia come il diritto internazionale, pur fondato su principi chiari, si scontri con la prassi statuale, rivelando la tensione strutturale tra esigenze di sicurezza e imperativi inderogabili di tutela umanitaria.
Aggiornato il 02 ottobre 2025 alle ore 10:43