“Dottore mi aiuti”: l’etica della speranza

Per chi non ha il dono della fede, il parametro di riferimento è quello l’etica naturale, che ogni persona possiede in potenza sin dal primo vagito, e in atto si accresce mediante l’istruzione. L’etica è il comune denominatore di ogni forma dell’agire umano: del diritto, della medicina, dell’economia, della politica, della scienza, dello sport, sicché quando si ritiene di poterne prescindere, alla lunga prende la sua rivincita, travolgendo come uno tsunami impetuoso chi ha ritenuto di poterne prescindere calpestandola. Nel campo della medicina in particolare, il fattore dell’etica riveste una importanza fondamentale, perché ha delle ricadute significative sulla diagnosi, che deve essere scrupolosa e accurata, così come sulla terapia, che deve mirare alla salvaguardia della vita, della sua qualità, così come della dignità e della sensibilità del malato. Non è infrequente che un medico percepisca questa più o meno espressa invocazione da parte del paziente: “Per favore mi aiuti”, veicolata con le parole, con l’intensità di uno sguardo smarrito, con la forza di una stretta di mano, che vuole agganciarsi alla vita tramite il contatto fisico del camice bianco che gli è dinnanzi. Il medico in quell’istante trascende il ruolo di soggetto preposto alla diagnosi ed alla cura della malattia, per assurgere a quello di angelo custode laico, cui è demandata la speranza della guarigione, della salvezza, o quanto meno della prospettiva di una migliore qualità e dignità della vita residua, quando alla scienza medica non è consentito altro utile risultato.

Il medico è chiamato allora ad intraprendere una relazione umana che va oltre quella meramente professionale, poiché nel sostegno che arreca a chi attraversa il tunnel della malattia, non si può arrestare al freddo dato clinico, ma si protende a far proprio un sentimento di empatia e di condivisione con il paziente, tanto più intenso ed incisivo, quanto più è acuta la sensibilità dello stesso. In un certo qual modo, il “Dottore” è chiamato ad entrare con cautela nei recessi dell’anima del malato, bisognevole di sostegno affettivo, non meno che di supporto farmacologico. Una parola di conforto, di speranza, di sostegno, ha un valore terapeutico straordinario per rafforzare la volontà di guarire o di star meglio. Non vi devono essere sentenze di condanna irreversibili, attraverso algidi bollettini correlati al consenso informato, senza il temperamento dell’umanità necessaria a partecipare anche il vero più inesorabile, con delicatezza e sfumature che lascino filtrare sempre un raggio di calda luce, nel buio della sofferenza. Il paziente ha bisogno oltre che della diagnosi e della cura, anche di quello straordinario farmaco che è l’attenzione partecipe e non superficiale del curante. Ciò vuol dire il non passare frettoloso del camice bianco nella corsia ospedaliera, innanzi a coloro che non sono numeri fra tanti, ma soggetti bisognevoli di sentirsi considerati ed importanti specialmente nel momento della sofferenza. In tale contesto, assume una rilevanza particolare il rispetto della volontà del paziente, il che comporta da parte del medico di dover esercitare una speciale ponderazione fra cosa e fino a che punto comunicargli il vero, come affrontare insieme al suo assistito la malattia, fin dove lasciarsi emotivamente coinvolgere e fin dove – viceversa – conservarsi professionalmente distaccati, nell’interesse stesso del malato, che può trarre giovamento da una fermezza rassicurante e solare, più che da una commozione rivelatrice dell’inesorabile.

In estrema sintesi, ci si pone spesso anche questo interrogativo: dire o non dire la verità al malato in fase finale? Si confrontano qui due principi etici: quello della sincerità che esige che il malato sia reso edotto della gravità del suo male, e quello della pietas, che impone di non arrecargli danno dicendogli la verità nuda e cruda: è il caso paradigmatico del malato terminale. Ciò che è sicuro, è che non dovrebbero esistere delle generalizzazioni al riguardo, poiché prima della malattia, come insegnava Ippocrate, c’è il malato nella sua unicità. È un obbligo morale del medico informare lealmente il malato, ma non senza prima ascoltarlo per capirne la reattività emotiva: non è necessario evocare una morte prossima, essendo bastevole riferirsi alla gravità della malattia e all’incertezza dei risultati della terapia, lasciando però sempre aperto all’interlocutore il cuore alla speranza. Numerose ricerche empiriche hanno dimostrato che i morenti non perdono mai del tutto la speranza, e che la disperazione – con conseguente calo della serotonina, accelera l’aggravamento del male; mentre persino dei malati di cancro hanno tratto giovamento dal riso, dalla letizia che fa aumentare la serotonina, e con essa le difese immunitarie. Il contatto umano con un medico che sappia infondere coraggio ed ottimismo, è una vera e propria terapia che può accelerare una guarigione, ritardare un esito inesorabilmente infausto, o comunque migliorare la qualità della vita residua. L’alternativa è quella di iniziare a morire dentro un po’ alla volta, anticipando inutilmente l’arrivo dell’Angelo della morte.

Aggiornato il 16 settembre 2025 alle ore 09:21