“Umani si diventa”

Mantova − Tutto esaurito da giorni perUmani si diventa, un laboratorio-dialogo capace di riportare adolescenti, genitori e insegnanti al centro della scena, intrecciando neuroscienze e psicologia con la concretezza dei contesti educativi. L’incontro, svoltosi il 5 settembre nella sala conferenze del Campus di Mantova del Politecnico di Milano, ha visto protagonisti il neuroscienziato Vittorio Gallese e lo psicologo Ugo Morelli, che hanno proposto un confronto serrato su come si diventi sé stessi nel nostro tempo, a partire dai fili che legano corpo, emozioni, apprendimento e relazioni.

Il pubblico è stato coinvolto sin dall’inizio: sullo schermo alle spalle dei relatori è infatti apparso un Qr code, che invitava ad indicare via web quale parola rispondesse alla domanda “cosa significa essere umani?”. La più gettonata è stata “relazione”, seguita da “empatia”, due termini che, non a caso, hanno fatto da cornice simbolica a tutto il dibattito.

Il riferimento al volume Umani. Come, perché, da quanto tempo e fino a quando? ha guidato l’incontro: non un prontuario di ricette, ma una cornice per leggere la crescita alla luce dell’embodiment e della complessità, dove il cervello “accade” nelle relazioni e nell’ambiente, non in un isolamento astratto.

Il punto di partenza è stato netto: non esiste sviluppo psichico che non sia anche “relazione incarnata”. Il professor Gallese ha insistito sull’idea che i processi di comprensione dell’altro muovano dalla dimensione corporea e percettiva quella che ci consente di “sentire” l’azione e l’intenzione altrui prima ancora di tematizzarle concettualmente. Da qui, il passaggio alla scuola e alla famiglia è apparso immediato: si apprende meglio quando ciò che si studia ha un ancoraggio esperienziale, quando la classe diventa un luogo dove il sapere passa per il fare, il corpo, la cooperazione.

La forza di questa posizione sta nel sottrarre l’educazione alla dicotomia sterile tra nozionismo e spontaneismo: la conoscenza può e deve essere rigorosa, ma prende forza quando si traduce in pratiche che coinvolgono l’intero organismo, non solo l’intelletto. Morelli ha collocato questa prospettiva dentro la psicologia della complessità: diventare umani significa attraversare conflitti, incertezze, ambivalenze, e imparare a farne materia di pensiero. L’adolescenza, in questo quadro, non è un incidente di percorso ma il laboratorio privilegiato dove si prova a tenere insieme desiderio e limite, autonomia e legame.

La ricaduta operativa è chiara: gli adulti significativi docenti e genitori svolgono una funzione di “regolazione” e di “mediazione” che non coincide con il controllo; si tratta di creare condizioni perché il ragazzo possa provare, sbagliare, riprovare, in un contesto di regole riconoscibili e di fiducia esigente.

Anche il digitale è emerso come banco di prova. La dimensione online non è stata letta come un “altrove” da demonizzare, ma come un ambiente di vita che moltiplica possibilità e rischi. Gallese ha richiamato il costo, in termini di attenzione e corporeità, di un apprendimento troppo disincarnato; Morelli ha sottolineato che l’alfabetizzazione emotiva e la responsabilità nelle interazioni non possono essere lasciate all’autogestione del gruppo dei pari.

Gli studenti presenti hanno preso parte attiva, rivolgendo ai professori domande dirette. Una in particolare: “Se foste ministri dell’Istruzione, cosa cambiereste?” Gallese ha risposto che sburocratizzerebbe l’attività didattica e costruirebbe una scuola che stimola la curiosità e le domande, piuttosto che riempire di nozioni. Morelli, invece, ha insistito sulla necessità di un linguaggio comune, ribadendo che la scuola non può ridursi ad “istruzionismo”: l’apprendimento, a suo parere, avviene attraverso il movimento, la ricerca, la curiosità.

In questo spirito, i relatori hanno anche giocato con il linguaggio, utilizzando vari neologismi già da loro coniati come “condividuo”, “diventità” e “spazio noicentrico termini che ribadiscono come l’io si costituisca dentro la relazione con l’altro, e come la nostra unicità nasca costantemente dall’interfacciarsi con ciò che è esterno a noi. Centrale, poi, il concetto di “risonanza incarnata”, che rimarca il ruolo del corpo come base di ogni esperienza.

È proprio sul digitale e sull’inclusione che scuola e famiglie si misurano con la sfida decisiva: non proibire per ansia, né cedere per stanchezza, ma progettare esperienze in cui la competenza digitale diventi anche competenza relazionale. La classe funziona quando riconosce differenze, tempi e stili cognitivi eterogenei, e traduce la parola “inclusione” in pratiche verificabili: lavori cooperativi, valutazioni che premino il processo e non soltanto l’esito, spazi di parola in cui il conflitto non venga negato ma trasformato in occasione di responsabilità.

Il riferimento costante al libro Umani ha evitato semplificazioni: il testo invita a superare l’idea di un soggetto autosufficiente e puramente cognitivo, proponendo invece una visione in cui mente, corpo e ambiente formano un circuito unico. Ne derivano ricadute molto concrete: valorizzare le esperienze di laboratorio nelle scuole, ripensare gli spazi come “dispositivi” che orientano i comportamenti, sostenere percorsi di educazione emotiva che non scadano nel moralismo ma allenino davvero alla riflessività e all’empatia.

In controluce si è colta anche la posta pubblica della discussione. Se “umani si diventa”, allora la responsabilità non riguarda solo i singoli, ma un ecosistema di politiche e istituzioni: tempo-scuola adeguato, formazione dei docenti sulle competenze socio-emotive, sostegno alle famiglie fragili, alleanze territoriali tra scuola, servizi e terzo settore. È un’agenda che non si esaurisce nel lessico dell’emergenza, ma chiede programmazione e valutazione degli esiti.

Dal punto di vista pedagogico, questo approccio non addolcisce la fatica dell’educare: la rende più esigente. Ma è proprio nell’esigenza non nell’astrazione dei principi né nell’ansia del controllo che si misura la serietà di una comunità educativa.

L’incontro si è chiuso senza slogan, con un invito netto: “La domanda è all’origine di tutto”.

Rigore e cura, esperienze fondate su evidenze, attenzione ai contesti reali: diventare umani non è un traguardo da certificare, ma un processo da accompagnare. La lezione che resta è semplice e insieme impegnativa: scuola e famiglie funzionano quando accettano di essere parte di questo processo, non spettatori.

Aggiornato il 08 settembre 2025 alle ore 12:56