La nuova traduzione del “Padre nostro” contiene una scheggia gnostica?

Quando, nel 2020, la Conferenza episcopale italiana introdusse nella liturgia la nuova traduzione del Padre nostro con la formula “non abbandonarci alla tentazione” al posto del tradizionale “non ci indurre in tentazione”, il cambiamento venne presentato come un aggiornamento linguistico e teologico volto a evitare che il fedele attribuisse a Dio un ruolo attivo nell’istigare al male. La modifica, in linea con la resa già adottata nella Bibbia Cei del 2008, venne approvata con il beneplacito di Papa Francesco, che in un’intervista a Tv 2000 aveva spiegato: “Un padre non fa questo, non spinge il figlio alla tentazione. Quello che ti induce alla tentazione è Satana”. Mentre la versione della Chiesa cattolica in lingua inglese, della New Jerusalem Bible (1990) traduce ancora: And do not put us to the test, but save us from the Evil One, e gli ortodossi che sono in Italia, per esempio i romeni, hanno conservato “e non ci indurre in tentazione”, dopo molti secoli in cui la vecchia traduzione è stata approvata dalla Chiesa e da diversi pontefici, alcuni dei quali santi, un certo desiderio di cambiamento ha suggerito alla Cei e al Papa un “cambio di paradigma” per certi versi sorprendente. La motivazione di questo cambiamento si radica in una preoccupazione esegetica antica. Nel testo greco dei Vangeli, la richiesta a Dio è espressa con l’espressione μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν (Matteo 6,13; Luca 11,4), resa in latino come ne Nos inducas in tentationem. Il verbo eisphérō significa “portare dentro, condurre in” e il sostantivo peirasmos può indicare tanto la tentazione quanto la prova.

Da qui il timore, in epoca moderna, che la traduzione italiana “indurre in tentazione” facesse pensare a un Dio tentatore, in contrasto con passi come Giacomo 1,13: “Dio non può essere tentato dal male ed egli non tenta nessuno”. Eppure, questa lettura non è l’unica possibile, e il cambiamento ha sollevato obiezioni rilevanti. La prima, e probabilmente la più rilevante, riguarda proprio il significato di “indurre in tentazione”. Esso, nella tradizione biblica e patristica, non equivale a “indurre al male”, ma può significare “condurre in una situazione di prova in cui è necessario scegliere tra il bene e il male”. È lo spazio drammatico e fecondo del libero arbitrio, attraverso il quale Dio si manifesta e si realizza la dignità dell’uomo. Il libro dell’Esodo racconta che “Dio mise alla prova Abramo” (Genesi 22,1), e Mosè afferma: “Dio è venuto per mettervi alla prova” (Esodo 20,20). L’episodio delle tentazioni di Cristo nel deserto è ancora più esplicito: “Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo” (Matteo 4,1). Qui il condurre nella prova è opera dello Spirito stesso e, attraverso lo Spirito, del Padre, e non può essere interpretato come un atto ostile. È la stessa logica del Libro di Giobbe, in cui la prova, pur passando attraverso l’azione del Satana accusatore, rimane sotto la sovranità di Dio. Cambiare la traduzione in “non abbandonarci alla tentazione” implica invece uno spostamento di prospettiva: Dio non “porta” l’uomo nella prova, ma lo protegge dal rimanervi solo. È una formulazione pastoralmente rassicurante, ma teologicamente problematica per chi legge la tentazione nel senso biblico di prova. Se Dio non può neppure indirettamente indurre alla tentazione, significa che l’origine della prova si trova interamente fuori di Lui, nel potere di Satana o nelle contingenze del mondo.

Le perplessità che la nuova traduzione ha suscitato riguardano quindi sia aspetti linguistici che eminentemente teologici. Come ha messo bene in evidenza Matteo Taufer in un breve saggio ad un tempo esauriente e puntuale, (Una vecchia scheggia gnostica? Annotazioni sul “non abbandonarci” della Cei, disponibile sul web) la Conferenza episcopale italiana non si è peritata “di volgere καὶ μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν nell’arbitrario “e non abbandonarci alla tentazione”. L’infedeltà di questa traduzione “sta nell’idea di abbandono, ch’è del tutto assente nella frase greca, il cui verbo, aoristo suppletivo di εἰσφέρω, non ammette altri valori all’infuori di portar dentro, introdurre, indurre, implicando un moto a luogo rimarcato, si badi bene, dalla ripetizione di εἰς (verso, in)”. Per quanto concerne invece gli aspetti teologici, la traduzione approvata dalla Cei sembra invece trascurare il fatto, evidenziato invece da Aldo Maria Valli in un volumetto dedicato alla questione (AAVV, Non abbandonarci alla tentazione? Riflessioni sulla nuova traduzione del Pedre nostro, Chorabooks, Hong Kong, 2020), che “Dio certamente permette la tentazione, e non in via straordinaria o marginale, ma come esperienza costante”. Nel suo Commento al Padre nostro, anche Origene aveva interpretato la domanda come una richiesta di non essere “sopraffatti” dalla tentazione, non di evitarla completamente, sottolineando che la crescita spirituale passa attraverso una scelta interiore, e nel De Oratione (29, 15 e 17) afferma che “Dio non vuole costringere al bene: vuole persone libere. La tentazione ha una sua utilità. Tutti, all’infuori di Dio, ignorano ciò che l’anima nostra ha ricevuto da Dio; lo ignoriamo perfino noi. Ma la tentazione lo svela, per insegnarci a conoscere noi stessi e, in tal modo, a scoprire ai nostri occhi la nostra miseria e obbligarci a rendere grazie per i beni che la tentazione ci ha messo in grado di riconoscere”.

Si tratta in effetti di una tesi che i Padri della Chiesa hanno sviluppato in modo circostanziato. Sant’Agostino, per esempio, è convinto che la tentazione, come esperienza, non sia eliminabile: ciò che la preghiera domanda è che essa non diventi caduta. Il vescovo d’Ippona opera infatti una distinzione tra l’essere tentati e l’essere indotti nella tentazione – Aliud est tentari, aliud est in tentationem induci (De sermone Domini in monte, II, 9, 30) che sembra utile proprio per sciogliere l’ambiguità della richiesta in questione: una cosa è essere tentati, ovvero sottoposti a una prova, altra cosa è essere condotti dentro la tentazione fino a soccombere. Il Signore per Agostino tenta non per sapere qualcosa sulla fede del credente, di cui sa già tutto, ma per far conoscere a colui che è tentato lo spessore e la consistenza della propria fede: il vero scopo della tentazione è indurre colui che viene tentato a saggiarne la profondità. Nella preghiera non si chiede quindi di non essere tentati, ma di non essere introdotti nella tentazione, ovvero di non essere indotti a scegliere di assecondarla. La preghiera, in questo senso, non elimina la libertà umana, ma ricorda che essa non è autosufficiente.

Il libero arbitrio resta reale, ma fragile: la Grazia è necessaria per resistere. Per questo Agostino mette in relazione il Padre nostro con una delle sue tematiche più caratteristiche, quella della Grazia preveniente e cooperante. La richiesta del Padre nostro è quindi una supplica perché la tentazione non diventi caduta definitiva, mentre l’incontro con il male, da cui scaturisce la tentazione, è parte del disegno di Dio, ciò per cui può aver senso il chiedergli di non indurci in tentazione. Non è Dio a spingerci verso il male, ma è Dio che permette che siamo tentati, e da lui dipende in definitiva la tentazione. E proprio perché è da lui ammessa il suo sostegno, senza il quale finiremmo con l’acconsentire alla tentazione, rimane costante. È in questo equilibrio tra libero arbitrio e soccorso divino che si gioca l’interpretazione agostiniana del Padre nostro, destinata ad avere lunga influenza su tutta la tradizione successiva. San Tommaso d’Aquino, circa otto secoli dopo, riprende e sviluppa questa linea. Nella Summa Theologiae (II-II, q. 83, a. 9, ad 3) scrive: “Dicitur ergo: Et ne nos inducas in tentationem, quod est, ne patiaris nos induci in tentationem. Deus enim tentat, ut probet; diabolus vero, ut decipiat”, ovvero: “Si dice dunque: non ci indurre in tentazione, cioè: non permettere che siamo introdotti in tentazione. Dio infatti tenta per provare; il diavolo invece, per ingannare”.

Tommaso introduce qui una distinzione più netta rispetto ad Agostino: la tentazione può avere un significato positivo (ad probationem), come prova pedagogica che rafforza la virtù, ed è allora permessa da Dio; oppure negativo (ad deceptionem), come seduzione al male, ed è opera del demonio. Nel primo senso, “tentare non è altro che sperimentare la tenuta” di qualcuno, “metterlo alla prova” per consentirgli di sperimentare la solidità della propria fede. Anche Benedetto XVI, nel secondo volume del suo Gesù di Nazaret, affronta direttamente la questione: “Quando preghiamo così, chiediamo a Dio di non imporci delle prove che superano le nostre forze… ma, se deve accadere, di darci in ogni caso la forza di resistere”. La domanda resta viva, non per imputare a Dio la tentazione in senso malizioso, ma per riconoscerlo come Signore anche del tempo della prova, e si tratta di una prova talmente essenziale che anche Cristo l’ha dovuta affrontare. Come ricorda San Paolo (Ebrei 4,15), “Non enim habemus pontificem qui non possit compati infirmitatibus nostris: tentatum autem per omnia pro similitudine absque peccato”; ovvero, tradotto, “non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre debolezze: egli stesso è stato tentato in ogni cosa come noi, escluso il peccato”. San Paolo interpreta dunque questa esperienza della tentazione di Cristo come garanzia che la tentazione non è estranea al disegno di Dio, ma parte di un cammino in cui la Grazia sostiene la libertà della coscienza individuale.

In definitiva, il dibattito non riguarda soltanto una sfumatura linguistica, ma una diversa concezione del rapporto tra Dio, il male e la libertà umana. Da una parte, la nuova traduzione evita il rischio catechetico di far pensare che Dio sia autore del male; dall’altra, però, sposta l’accento verso un Dio che, pur onnipotente, si limita a “non abbandonare”, lasciando aperta la possibilità d’intendere che la prova sia sempre estranea al suo volere e frutto dell’azione di un altro potere. Per chi, come molti interpreti patristici e teologi successivi, vede nella prova una manifestazione della sovranità divina e un’occasione per esercitare il libero arbitrio, la formula tradizionale “non ci indurre in tentazione” conserva una profondità teologica che la nuova resa rischia di attenuare. Il Padre nostro, in ogni sua parola, custodisce secoli di interpretazioni che manifestano diverse forme di sensibilità. La discussione su questa frase mostra quanto il linguaggio della fede sia legato a visioni profonde dell’uomo e di Dio e come una semplice modifica possa aprire questioni che caratterizzano in modo significativo la spiritualità cristiana. Sarebbe però importante che qualsiasi traduzione del testo originale rendesse chiaro a ogni fedele reale o virtuale che l’indurre in tentazione – nel senso di sottoporre a prove che siano in grado di costringere a esercitare il proprio libero arbitrio e che siano in questo senso anche prove a cui ogni fede autentica viene sottoposta – è cosa diversa dal cercare d’indurre a fare il male, perché sollecitando l’esercizio del libero arbitrio si evidenzia proprio un supremo dono divino di cui non si può eludere l’esercizio.

Al contrario, concepire l’indurre in tentazione come un’azione diabolica estranea al volere di Dio immette in una logica dualista che pare il frutto – come mette in risalto Taufer – dell’eredità gnostica. Se infatti la traduzione accettata dalla Cei “non ha la minima giustificabilità filologica entro il greco evangelico, ma è ripresa, infelice, di un’isolata parafrasi semplificante”, sotto il profilo teologico esse sembra assecondare una prospettiva gnostica, perché gnostica è “la distinzione totale del Cristo dal Padre veterotestamentario, demiurgo inferiore contro la cui legge Gesù avrebbe parlato ai suoi, usando un linguaggio misericordioso e avverso alla gretta durezza del Dio giudaico. Potrebbe Cristo, redentore di chi lo segua, indurci in tentazione? No, risponderebbe lo gnostico, perché Cristo avrà invece cura di non lasciare che i suoi adepti siano indotti dal demonio in tentazione”. Ma nella Bibbia il demonio non tenta senza il consenso di Dio. Nel prologo del libro di Giobbe, per esempio, Satana non agisce autonomamente, ma soltanto dopo aver ricevuto il permesso da Dio: “E il Signore disse a Satana: Ecco, tutto ciò che possiede è in tuo potere; soltanto non stendere la mano su di lui” (Giobbe 1,12); e nel secondo Libro di Samuele “Dio incitò Davide a fare il male attraverso il censimento di Israele” (24,1).

Secondo il cardinale Gianfranco Ravasi, la presenza d'interpetazioni così apertamente contrastanti è comprensibile alla luce della mentalità semitica, che “per evitare di introdurre il dualismo di fronte al bene e al male, cioè l’esistenza di due divinità, l’una buona e l’altra malvagia, cerca di porre tutto sotto il controllo dell’unico Dio, bene e male, grazia e tentazione. In Isaia il signore non esita a dichiarare: “Sono io che formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene e causo il male: io; il Signore; compio tutto questo! (45,7)”. In realtà, continua Ravasi, “si sa che il male morale dev’essere ricondotto o alla libertà umana o al tentatore per eccellenza, Satana. Non per nulla la frase sopra citata riguardante Davide nel racconto parallelo dei libri delle Cronache viene corretta e suona così: “Satana spinse Davide a censire gli israeliti” (Isaia, 21,1). Pregando il Padre divino di non indurci in tentazione si voleva, allora, domandargli sia di non provarci con durezza, cioè di non esporci a prove troppo pesanti per la nostra realtà umana, sia di non lasciarci catturare dalle reti del male”. Quest’apparente contraddizione tra diversi passi biblici sta all’origine anche delle due diverse traduzioni del passo incriminato del Padre nostro e non può essere sciolta senza tener conto della differenza che sussiste tra l’essere una causa diretta del male e della tentazione e l’esserne invece la causa indiretta e ultima, perché se nel primo senso la causa può essere solo Satana, nel secondo può esserlo solo Dio.

Come sostiene Sant’Agostino, anche Satana è infatti creatura, non principio eterno, e il male non è una sostanza opposta a Dio, ma una privazione del bene (privatio boni), resa possibile dal dono della libertà. Sulla stessa linea, San Tommaso d’Aquino ribadisce che Dio può “permettere” la tentazione, non per volere il male, ma per trarre un bene maggiore dalla prova. Se invece si escludesse ogni forma di permissione divina, si finirebbe con l’attribuire al male un’autonomia e un potere originario che non è compatibile con il cristianesimo. Per questo, il monoteismo cristiano ha sempre affermato che Dio resta Signore anche della prova: pur non essendo mai l’autore del male, Egli mantiene la sovranità sull’intera vicenda, assicurando che nulla accada fuori dal raggio della sua provvidenza. In questo senso, quindi, Dio è sovrano anche sul male, che in quanto privatio boni costituisce una parte ineludibile del suo essere, poiché non sarebbe nemmeno intellegibile senza l’idea stessa del bene di cui è la privazione, così come, per una ragione analoga e simmetrica, anche il bene non sarebbe concepibile senza il male. Dio reca cioè in sé la propria negazione, come si confà a ogni tutto, o a ogni signore del tutto, e la usa affinché, non assecondandola come tentazione al male, si dischiuda per ogni fede la via d’accesso alla Grazia.

La scelta dell'espressione “non abbandonarci alla tentazione” presuppone invece che Dio non abbia avuto alcun ruolo nell’indurre in tentazione, come se questo fosse un compito specifico di Satana non autorizzato da Dio. Saremmo dunque di fronte a un Dio che non si assume la responsabilità dell’azione decisiva che l’esperienza del male e della tentazione hanno all’interno del processo che conduce alla fede, scaricandone la responsabilità sul maligno. Ma se Dio non ci può “indurre” nella tentazione, non si vede nemmeno perché invece gli sia consentito di “abbandonarci” ad essa, e la preferenza accordata alla traduzione oggi in uso trascura il fatto che in realtà evitare la prova significa vanificare la Croce, come testimoniano le parole che il Signore rivolse a Pietro quando voleva evitargliela, definendo il suo comprensibile desiderio come una “tentazione satanica”. In altre parole, chiedendo di “non ci abbandonarci alla tentazione”, Dio appare come colui che potrebbe abbandonarci ad essa. In questo modo, come osserva Dom Giulio Meiattini, monaco benedettino dell’Abbazia Madonna della Scala in Noci, “l’oscurità o la difficoltà teologica non è sciolta, ma solo spostata”. Un Dio che abbandona il Figlio e può abbandonare noi alla tentazione diabolica o alla prova non è infatti meno misterioso di un Dio che conduce nella tentazione o che conduce il Figlio nel deserto per esservi tentato dal diavolo”.

Il risultato a cui approda la nuova traduzione può quindi essere, secondo quanto osserva lo stesso Meiettini nel testo a più voci che abbiamo citato, così riassunto in quattro punti: “A) Si è scelta una traduzione chiaramente sbagliata sul piano filologico; B) Non si è risolto il problema interpretativo e teologico, che rimane tale e quale; C) Si è ripiegato sulla semplificazione divulgativa, considerando quest’ultima come l’unico livello di cui tenere conto; D) Questa opera di semplificazione non raggiunge però il suo scopo”. In particolare, è il caso di sottolineare come un padre che abbandona il figlio nella tentazione non sia meno scandaloso di un padre che induce nella tentazione il figlio non abbandonandolo nella tentazione. Semmai è vero il contrario. Se la tentazione dipende da Satana e Dio può abbandonare a una tentazione che proviene da Satana, Dio risulta essere connivente con la sua azione, permettendo che il disegno di Satana si compia. Se invece la tentazione viene da Dio ed è una prova volta a rendere ciascuno consapevole della profondità della propria fede ha senso chiedere a Dio di non abbandonare nessuno nella prova e di sostenere la propria fede. Nel primo caso si scivola in una dimensione dualista e gnostica, nel secondo si rimane all’interno del cristianesimo inducendo a sperimentare, attraverso la prova, la consistenza reale della propria fede. Anche l’espressione “liberaci dal maligno” – come sarebbe più corretto tradurre il versetto successivo – implica che il maligno tentatore è nel potere di Dio, e con lui lo è la sua vocazione a tentare. È Dio che attraverso di lui può indurre in tentazione, ed è Dio che può allontanare dal maligno non inducendoci attraverso di lui alla tentazione, ma sottoponendo la coscienza di ciascuno alla prova della propria fede.

Aggiornato il 02 settembre 2025 alle ore 11:57