Hiroshima e la cecità del pacifismo

Perché la condanna morale dell’atomica non coglie l’essenza del problema tecnologico

Ottant’anni or sono, un bagliore più luminoso del sole medesimo attraversò i cieli di Hiroshima. Era il sesto giorno d’agosto dell’anno 1945: l’attimo in cui l’umanità oltrepassò la soglia di un’epoca nuova, quella in cui la possibilità dell’autoannientamento divenne elemento costitutivo della propria esistenza storica. Nell’odierna commemorazione di quella cesura epocale, risuonano dovunque le rituali liturgie della memoria. I sopravvissuti, testimoni sempre più rari di quell’apocalisse, si alternano alle autorità religiose e civili nell’invocare il “mai più”. Si moltiplicano i monumenti votivi, si reiterano le formule sacramentali del disarmo, si proclama la pace quale destino necessario e compimento ultimo della ragione umana. Tuttavia, ciò che si ripete non è soltanto la solenne liturgia del ricordo: è altresì il permanere immutato di quella verità che l’arma atomica ha disvelato con violenza senza precedenti nella storia. Da ogni confine del mondo civilizzato si levano voci di riprovazione contro gli arsenali nucleari. Trattati internazionali, consessi diplomatici, dichiarazioni pontificie, documenti solenni delle massime istituzioni, campagne di mobilitazione dell’opinione pubblica: un coro unanime e incessante proclama che la guerra atomica non può risolversi se non nella sconfitta universale del genere umano.

Gli armamenti vengono additati quale vestigia di un’età barbara, retaggio di logiche primitive che la maturità delle democrazie liberali dovrebbe aver definitivamente trasceso. Eppure, mentre si affina e si perfeziona la retorica pacifista, gli arsenali crescono inesorabilmente. Le testate nucleari non soltanto non vengono smantellate, ma si evolvono, si miniaturizzano, si perfezionano mediante tecnologie di crescente sofisticazione. Nuove potenze aspirano al conseguimento dell’arma suprema, mentre le nazioni che già la possiedono custodiscono gelosamente i propri arsenali quale sigillo invalicabile della propria supremazia. Si manifesta dunque uno scarto incolmabile tra il dire solenne e l’agire effettuale, tra l’etica proclamata e la realtà storica concreta. L’indignazione morale pare ormai ridotta a reazione automatica, disancorata dal pensiero autentico della verità. Poiché condannare un fenomeno presuppone anzitutto il comprenderlo nella sua essenza, l’inserirlo nel destino complessivo della civiltà umana, e non già il semplice opporvisi in nome di un’astratta purezza ideale. Questo atteggiamento che permea l’intera cultura contemporanea costituisce precisamente ciò che Georg Wilhelm Friedrich Hegel definiva quale ingenuità delle “anime belle”: coloro i quali, incapaci di abitare il conflitto tragico del reale, si ritirano nella sterile contrapposizione morale, nella lontananza illusoria dalle forze effettuali che muovono il corso della storia. Ma il fuoco primordiale, la ruota, il bronzo e il ferro, la polvere pirica, l’arte tipografica, la macchina a vapore, l’energia elettrica, la tecnologia del silicio, infine l’arma atomica: ogni qualvolta la tecnica ha dischiuso una nuova possibilità di potenza, la civiltà si è trovata dinanzi a una scelta dalla necessità inderogabile. E costantemente ha scelto di appropriarsene, di dominarla per dominare sugli altri. Procedere diversamente avrebbe significato condannarsi al superamento, al soccombere nell’inevitabile confronto con coloro i quali, al contrario, di quella medesima tecnica si fossero costituiti strumento di dominio.

La storia universale non conosce eccezioni a questa legge ferrea: ogni popolo che abbia omesso di farsi carico delle innovazioni tecniche disponibili ha terminato per dipendere da altre nazioni che, diversamente, ne hanno costituito il proprio vantaggio strategico decisivo. La logica che presiede a tale processo è di una implacabilità assoluta: appropriarsi della potenza disponibile oppure essere destinati alla subordinazione permanente. E chi mai, nell’epoca presente, può concedersi l’aristocratico privilegio di invocare il disarmo universale, se non proprio quelle nazioni privilegiate che abitano il Nord del Pianeta e che hanno edificato i propri primati sulla signoria della tecnica? Chi può esigere dagli altri la rinuncia al legittimo desiderio di conseguire l’eguaglianza, se non coloro che custodiscono con cura gelosa i propri arsenali quale garanzia ultima della propria egemonia planetaria? La retorica pacifista dissimula sovente la volontà di cristallizzare gli equilibri vigenti, di impedire che i rapporti di forza possano essere rimessi in discussione mediante l’accesso universale alle tecnologie decisive. Ma l’ingenuità della coscienza contemporanea riveste caratteri di radicalità ancora maggiore, poiché essa dimora nel tempo storico in cui è stata proclamata la “morte di Dio”. La verità non costituisce più un destino che precede l’uomo e lo trascende nella sua assolutezza, bensì un mero prodotto dell’attività umana: in quanto tale, revocabile, manipolabile, negoziabile secondo le convenienze contingenti del momento.

Entro codesto orizzonte nichilistico, ogni condanna smarrisce la propria forza normativa e si riduce a una delle molteplici opinioni che si contendono lo spazio pubblico del confronto democratico. Nessun Dio, nessun bene assoluto, nessun fine ultimo, nessuna verità che possa ergersi a criterio innegabile, indiscutibile e universale di giudizio. Permangono soltanto le strategie, gli interessi particolari, i calcoli utilitaristici della convenienza. Restano le armi e i dispositivi che assicurano il vantaggio nella lotta perpetua per l’esistenza. La pace medesima si trasforma in dispositivo strumentale: non più adempimento del senso, ma equilibrio precario tra deterrenze reciproche, risultato provvisorio e sempre revocabile di un calcolo razionale sui costi e i benefici del conflitto armato. L’interrogativo autentico e decisivo, pertanto, non concerne la giustizia o l’ingiustizia dell’arma nucleare secondo i parametri di una morale astratta e priva di fondamento ontologico. Esso verte piuttosto sulla possibilità di una civiltà che non abbia nella potenza il proprio fondamento costitutivo e ineliminabile.

Fintantoché il senso dell’essere rimane consegnato alla volontà di potenza, fintantoché il dominio continua a configurarsi quale forma della salvezza mondana, ogni condanna non potrà risolversi se non in ornamento retorico, in consolazione per anime belle. Non si tratta di assumere atteggiamenti pacifisti o bellicisti, bensì di vedere – e cioè di pensare sino al fondamento ultimo – che la tecnica non costituisce un accidente esterno all’essenza dell’uomo, ma il compimento necessario del destino dell’Occidente. E che l’arma atomica, lungi dal rappresentare un errore o una deviazione rispetto al cammino della civiltà, manifesta la forma estrema e più coerente della verità che governa il nostro tempo: quella verità che identifica l’essere con la potenza, l’esistenza con la capacità di dominare e trasformare l’ente nella sua totalità. In questo senso rigorosamente filosofico, le anime belle non sono innocenti. Sono cieche.

Aggiornato il 07 agosto 2025 alle ore 11:49