
Se lo Stato arriva a scegliere per noi perfino le canzoni, la cultura non è più espressione libera, ma concessione del potere
Il concerto era stato annunciato per il 18 luglio 2025, in un lido privato, a pagamento. La folk singer calabrese, Teresa Merante, avrebbe dovuto esibirsi davanti a un pubblico consenziente. Senonché, un’ordinanza del sindaco di Vibo Valentia ne ha impedito lo svolgimento. La motivazione? Una segnalazione della questura, secondo cui nei testi dell’artista vi sarebbero contenuti riconducibili all’apologia della criminalità organizzata. Nessuna prova, condanna e neppure una violazione accertata. Solo il sospetto che quelle parole potessero disturbare l’ordine pubblico. Tanto è però bastato per trasformare un evento privato in una questione politica.
La cantante ha espresso l’intenzione di proporre querela contro il primo cittadino vibonese. Ha sostenuto che parte del suo repertorio è tratto dalla tradizione popolare calabrese, che i brani contestati sono stati rimossi dai canali ufficiali, che oggi la sua musica è altra cosa. Nondimeno, anche se così non fosse, ciò che conta è il principio: se un contenuto non viola la legge, nessuna autorità pubblica, sindaco o altro, ha il potere di proibirlo. La libertà d’espressione, in uno Stato di diritto e in una società aperta e democratica, non è selettiva. Protegge anche ciò che infastidisce. Anzi, soprattutto ciò che infastidisce.
Un caso più o meno simile, come si ricorderà, è accaduto a Roma nel dicembre scorso. Il sindaco Gualtieri ha chiesto a Tony Effe di rinunciare al concerto di Capodanno al Circo Massimo. In tale circostanza, i suoi testi erano stati ritenuti inadatti a rappresentare l’immagine della Capitale. Anche in quel caso, nessun reato, nessuna condanna. Solo la percezione che quelle parole fossero scomode. Il performer ha reagito con un contro concerto da dieci euro, devolvendo l’incasso alla Croce Rossa. Il pubblico ha deciso con il portafoglio, senza che qualcuno avesse dovuto spiegargli cosa fosse giusto o sbagliato ascoltare.
Come appare evidente, in entrambi i casi prima richiamati, il potere ha agito in nome della “responsabilità”. Tuttavia, una società libera si fonda sulla sovranità del consumatore e sull’assunzione individuale di responsabilità. Nessuno è costretto a partecipare a un concerto, né a condividere un’opinione. Ciascuno ha invero il diritto di scegliere autonomamente. Vietare un’espressione lecita, anche in uno spazio privato, equivale a negare quel diritto. E sostituire il giudizio personale con la censura preventiva.
Del resto, applicando coerentemente il principio adottato dal sindaco di Vibo Valentia, si dovrebbero vietare film come “Il Padrino”, “Scarface”, “Romanzo criminale”. Si dovrebbero censurare tutte le fiction come “Gomorra” o altra di qualche tempo fa su Totò Riina, oltre a qualsiasi narrazione che rappresenti il crimine in modo ambiguo. Si finirebbe, così, per agire come nell’ex Unione Sovietica, dove “Il dottor Živago” di Boris Pasternak venne bandito perché raccontava la disillusione dell’individuo sotto il potere collettivo, e “Arcipelago Gulag” Aleksàndr Solzenicyn fu censurato per aver denunciato i lager con forza documentaria e civile. In Cina, poi, durante la Rivoluzione culturale, ogni musica non conforme al pensiero ufficiale veniva soppressa. E allo stesso modo, nell’Urss stalinista, il jazz, il rock e ogni espressione di libertà individuale erano bollati come degenerazioni borghesi. In Occidente, infine, l’Index Librorum Prohibitorum della Chiesa cattolica ha vietato fino al 1966 centinaia di opere considerate dannose per la fede e l’ordine morale: da Galileo a Machiavelli, da Kant a Sartre. Non era solo censura: era un tentativo di disciplinare le coscienze attraverso la selezione dell’ammissibile.
A margine è appena il caso di segnalare che anche la storia dell’arte è piena di nomi oggi celebrati che un tempo furono perseguitati, censurati, messi a tacere. Galileo, Pasolini, Goya: chi ieri era condannato per ciò che diceva, oggi è simbolo di progresso. Ma il potere non impara mai. E continua a colpire chi esce dal perimetro della rispettabilità imposta.
In definitiva, chi oggi si arroga l’autorità morale di vietare un brano musicale, domani rivendicherà il potere di stabilire quali idee si possano discutere, quali libri pubblicare, quali film trasmettere. La storia è piena di episodi in cui la censura ha preso il posto del confronto, e di nomi che – dopo essere stati messi a tacere – sono stati riconosciuti come precursori di libertà. L’intervento pubblico non si limita più a garantire l’ordine: pretende di dirigere i gusti, educare le coscienze, orientare le preferenze. Ma nessun potere – né religioso né secolare – può decidere al posto di tutti. La libertà è l’antitesi della tutela: è rischio, possibilità di errore, persino diritto al cattivo gusto.
E non serve nemmeno più vietare esplicitamente. Basta evocare concetti ambigui come la reputazione, la decenza, l’immagine pubblica. Si affida la selezione del lecito a un’autorità amministrativa che, senza passare da alcun giudice, stabilisce cosa sia accettabile e cosa no. È la censura con volto rassicurante: non si impone con la forza, ma con la cautela; non si presenta come divieto, ma come premura. Ma chi decide cosa si può cantare? E con quale legittimità un’autorità pubblica può impedire a un artista di salire sul palco solo perché il suo linguaggio non rientra nei confini della rispettabilità imposta dall’alto?
La libertà d’espressione non vale solo per chi ci piace. Vale – soprattutto – per chi ci disturba. Lo Stato che vieta una canzone non protegge la legalità: la sostituisce con l’arbitrio. E come ha ricordato George Orwell: “La libertà è il diritto di dire alla gente ciò che non vuole sentire”.
Eppure, la libertà, se ha un senso, è proprio questo: la possibilità di ascoltare ciò che il potere non approva. Di scegliere ciò che infastidisce, ciò che turba, ciò che divide. Non per provocazione, ma per autonomia. Perché la cultura non è un esercizio di uniformità, è invece un confronto aperto. E chi chiede protezione contro una canzone, in realtà, sta chiedendo protezione contro il pensiero.
Ogni cittadino è in grado di decidere da sé cosa è giusto, lecito, interessante. E quando lo Stato si sostituisce a questo giudizio, smette di essere un garante e diventa un censore. È così che chi oggi vieta un concerto, domani vieterà un libro, dopodomani un’idea, e infine una voce. La deriva è sempre la stessa: trasformare il potere pubblico da strumento di tutela a mezzo di controllo.
Aggiornato il 01 agosto 2025 alle ore 11:03