
Avendo già riflettuto sul problema della logica fallace del male minore, si dovrebbe compiere una più ampia ricognizione di filosofia morale in riferimento al Ddl sul suicidio assistito che il centrodestra intende condurre in Parlamento. Appoggiare il Ddl, per chi si riconosce nelle istanze giusnaturaliste e cattoliche, significa dover rendere conto di alcuni interrogativi: davvero l’unica strategia fattibile è quella di farsi autori di una legge sul suicidio assistito, che ad oggi non c’è? Chi può ragionevolmente garantire che l’eccezione resterà tale? Perché nessuno prevede il futuro, ma la storia è buona maestra. L’eccezione è moralmente accettabile? E se quel perimetro si allargherà come in tutti quei Paesi nei quali già suicidio assistito ed eutanasia sono legali, chi lo fermerà? Si può fermarlo? Come? Chi si prenderà la responsabilità di aver rotto l’argine o di aver valutato male la solidità di quello che riteneva tale? Su quali basi si potrà restare ai criteri eccezionali se già questi costituiscono un “male morale minore” accettato per coloro che fino a ieri erano contrari alla morte assistita? Proporre o promuovere un Ddl sul suicidio assistito rientra nella collaborazione formale al male? Il magistero sul punto è alquanto chiaro indicando che quanto più si fa il bene, tanto più si diventa liberi. Non c’è vera libertà se non al servizio del bene e della giustizia.
Quando l’uomo sceglie volontariamente è responsabile sia di una scelta buona sia di una scelta per il male. Vi sono condizioni che possono mitigare o annullare l’imputabilità e la responsabilità di un’azione quando la scelta per il male morale avviene in condizioni dettate da ignoranza, inavvertenza, violenza, da fattori psichici o sociali. Un uomo è responsabile e quindi un atto è imputabile quando direttamente voluto da chi lo esegue: se ne conseguono effetti dannosi non voluti da colui che agisce, allora questi possono essere tollerati; non sono effetti dannosi imputabili quando non sono stati voluti né come fine né come mezzo dell’azione; sono imputabili quando sono preventivati, voluti ed evitabili. Un male morale non può mai essere voluto o ricercato direttamente. Nel caso in questione lo si garantirebbe direttamente. Depenalizzare gli operatori sanitari che forniscono i mezzi per suicidarsi rientra nel perseguimento di un bene oggettivo o di un male oggettivo? Se si considera il suicidio assistito un male oggettivo, allora la risposta è evidente e non cambia se il Ddl viene proposto nel territorio regionale oppure nazionale. L’effetto diretto e intrinseco al Ddl è disporre il suicidio del richiedente. Il fatto che questo venga perimetrato a determinate condizioni non muta l’atto in un bene. Consentire l’accesso condizionato al suicidio assistito non come maggior bene possibile, ma danno minore, significa “tollerare” un numero di malati suicidi anziché un numero maggiore che si avrebbe con leggi più estensive e/o eutanasiche. La scelta è tra suicidio assistito ed eutanasia: due atti gravemente disordinati dal punto di vista morale, oggetto rispettivamente di leggi ingiuste, non imperfette. Preme ricordare l’insegnamento di San Giovanni Paolo II lasciato in eredità con l’Enciclica Evangelium Vitae, il cui paragrafo numero 73 viene strumentalizzato e citato in modo inopportuno proprio da chi sostiene e propugna l’iniziativa legislativa del centrodestra in tema di suicidio assistito.
Mentre, infatti, al numero 72 premette: “Le leggi che autorizzano e favoriscono l’aborto e l’eutanasia si pongono dunque radicalmente non solo contro il bene del singolo, ma anche contro il bene comune e, pertanto, sono del tutto prive di autentica validità giuridica. Il misconoscimento del diritto alla vita, infatti, proprio perché porta a sopprimere la persona per il cui servizio la società ha motivo di esistere, è ciò che si contrappone più frontalmente e irreparabilmente alla possibilità di realizzare il bene comune. Ne segue che, quando una legge civile legittima l’aborto o l’eutanasia cessa, per ciò stesso, di essere una vera legge civile, moralmente obbligante”. Al numero 73 così specifica: “Nel caso quindi di una legge intrinsecamente ingiusta, come è quella che ammette l’aborto o l’eutanasia, non è mai lecito conformarsi ad essa, “né partecipare ad una campagna di opinione in favore di una legge siffatta, né dare ad essa il suffragio del proprio voto”.
La contingenza storico-culturale da sola, dunque, non è sufficiente a modificare la natura dell’atto del quale una legge sul suicidio assistito si fa promotrice. Occorre ribadirlo: si tratta di supportare, proporre, incentivare una legge ingiusta, non imperfetta, poiché la perfezione riguarda la misura del bene, non del male, che in quanto tale non è mai perfettibile. Per limitare i danni posso uccidere un uomo che dice di volerne uccidere altri cinquanta, ma ucciderlo non figura come un atto morale buono e non mi esonera dalla responsabilità delle mie azioni. Le conseguenze di questa cooperazione al male non sono un effetto non voluto, bensì un prognostico avverato e, se supportato, accettato. La sensazione, infine, è che si stia perdendo di vista l’oggetto della questione: la persona malata e disperata che chiede, al ciglio di un ponte che in questo caso sarà la clinica o il divano di casa propria, se qualcuno riconosce ancora il valore della sua esistenza. Nella strategia politica o nella freddezza di un approccio tecnocratico e legalistico la persona scompare a tal punto che il suicidio diventa un “valore” da amministrare, o il male minore rispetto alla più diretta pratica eutanasia. I dati dicono, tuttavia, che, ad oggi, pur avendo già a disposizione la possibilità di richiedere il suicidio assistito, di rinunciare alle cure, di disporre le Dat, la principale richiesta degli italiani è quella di essere curati e che vi sia qualcuno – una comunità – disposta a riconoscere il valore della loro esistenza anche quando – soprattutto quando – non riescono a vederlo. Cicely Saunders parlava di “dolore ontologico” e totale, che richiede la cura dell’intera esistenza, non di un corpo, nemmeno di una biografia.
Sintetizzando il pensiero kantiano sul suicidio, chiediamoci: il suicidio è un principio che può diventare legge della natura? Risponde il filosofo illuminista: “Mi è facile vedere che una natura la cui legge consistesse nel distruggere la vita proprio in virtù di quel sentimento che è destinato a promuoverla, cadrebbe in contraddizione con se stessa, quindi non sussisterebbe come natura; è quindi impossibile che quella massima possa valere come legge universale della natura, perciò risulta contraria al principio supremo di ogni valore”. Si obietterà che il Ddl non approva il suicidio assistito e non lo intende come diritto soggettivo: se così fosse allora, a maggior ragione, vorrebbe dire che i relatori propongono una legge che non condividono e in cui non credono, quindi ingiusta sia universalmente sia personalmente. La morte non è un processo da amministrare e nemmeno un fatto privato.
(*) Docente di Bioetica presso l’Universidad de Anahuac di Città del Messico
Aggiornato il 24 luglio 2025 alle ore 10:47