
Paesi deserti, abitazioni senza valore, servizi inesistenti: ma la tassa resta. Un’ingiustizia che fotografa il declino
L’Italia si svuota, il fisco no. Intere comunità scompaiono, ma le imposte restano, uguali a se stessе, persino dove la realtà è cambiata radicalmente. Lo ha ricordato nei giorni scorsi, con parole misurate ma inequivocabili, il presidente dell’Associazione bancaria italiana Antonio Patuelli: “Esistono aree del nostro Paese che si stanno spopolando per diversi fattori, fra cui la concentrazione degli investimenti nelle zone meglio collegate da infrastrutture materiali e immateriali”. Un’osservazione lucida, che chiama in causa non solo le banche, ma la politica, la fiscalità, l’intera impalcatura amministrativa.
Gli Appennini, il Mezzogiorno e parte delle Alpi interne sono diventati difatti simboli viventi di una crisi irreversibile: meno abitanti, meno attività economiche, meno servizi. Lo stesso Patuelli ha chiarito che le attività bancarie seguono i flussi di popolazione, non li anticipano. Ma cosa accade quando nemmeno lo Stato si ritira, quando resta solo per esigere tributi?
Dal 2011 a oggi, secondo i dati dell’Agenzia delle Entrate riportati recentemente da Confedilizia, il numero di ruderi censiti come “unità collabenti” è aumentato del 126 per cento, passando da 278.121 a 629.022. Solo nel 2024, la crescita è stata dell’1,5 per cento. Non si tratta di un semplice invecchiamento edilizio, ma della conseguenza diretta di una triplice pressione: l’abbandono, la burocrazia e le tasse. Quando un borgo si svuota, il mercato immobiliare si azzera. Le case non hanno più valore, spesso nemmeno un potenziale acquirente. Eppure, l’Imu continua ad applicarsi anche su immobili inagibili, a meno che non siano formalmente dichiarati in rovina. E così, per sfuggire alla tassazione patrimoniale, in molti casi si arriva a forzare il degrado, togliendo il tetto o lasciando che il tempo completi la demolizione.
A questo dato patrimoniale si affianca una vera e propria emergenza demografica. Secondo l’Istat, tra il 2014 e il 2024 le aree interne hanno perso il 5 per cento della popolazione, con punte del 7,7 per cento nei comuni ultraperiferici. Solo nel 2023 il Mezzogiorno ha visto 116.000 residenti trasferirsi verso il Centro-Nord, a fronte di appena 125.000 nuovi arrivi. Una dinamica che si traduce in desertificazione sociale, perdita di servizi e impossibilità di mantenere in vita strutture minime di convivenza.
Lo Stato chiede un’imposta su beni che non producono reddito, possono essere affittati né trovano mercato. E lo fa anche quando si tratta di seconde case ereditate, situate in piccoli Comuni privi di qualsiasi servizio. Non importa che non ci sia acqua, gas o collegamento a internet: il tributo va versato. È qui che la tassazione diventa paradossale: in nome di una fiscalità astratta, si perpetua la distruzione di ciò che resta del territorio.
Ma non è solo questione di fisco. È la struttura normativa nel suo insieme a rendere impossibile la cura di ciò che si vorrebbe conservare. Vincoli paesaggistici, autorizzazioni multiple, norme antisismiche e regole edilizie sovrapposte impediscono ogni intervento. Chi volesse ristrutturare una vecchia casa in un borgo spopolato si scontra con costi insostenibili, incertezze infinite e divieti talvolta incomprensibili. Il risultato è l’abbandono sistemico. Un patrimonio che potrebbe essere vissuto, riabitato, recuperato viene invece lasciato marcire per legge.
Nel frattempo, la crisi demografica continua a fare il suo corso. Le nascite crollano, i giovani migrano verso le città o all’estero, gli anziani muoiono, gli eredi non tornano. E il borgo si svuota. Ma l’apparato statale, anziché farsi da parte, pretende ancora. Lo fa col fisco, ma anche con una retorica sulla “rigenerazione” che ignora la realtà: non si rigenera ciò che si tassa. Non si ripopola ciò che si soffoca.
Le parole del citato presidente Abi risuonano pertanto come un appello al buonsenso: investire nelle aree interne, modernizzare le infrastrutture, migliorare i collegamenti. Anche se bisogna essere consapevoli che ogni strategia pubblica è destinata a fallire, se non si accompagna a un passo fondamentale: smettere di penalizzare chi quei luoghi li abita ancora, o tenta di farlo.
La civiltà dei borghi non può sopravvivere se la casa viene considerata solo una base imponibile. E chi eredita un bene non dovrebbe essere costretto a distruggerlo per evitare le imposte. Un Paese che tassa i ruderi e ignora le rovine non può essere considerato moderno: è un potere che non conosce misura.
L’Italia dei borghi ha bisogno di libertà, non di elemosine. Di mani libere, anziché di carte bollate. Di riforme vere, in luogo di slogan, peraltro vuoti. E prima ancora di tutto, ha bisogno di una verità semplice: dove non c’è più vita, non può esserci tassazione. Dove tutto è già stato perso, l’erario non può continuare a pretendere.
Aggiornato il 23 luglio 2025 alle ore 11:13