
Perché le battaglie di Salvatore Borsellino rischiano di divenire un danno
Nel pantheon dell’antimafia civile, Salvatore Borsellino occupa un posto di rilievo. Fratello di Paolo, il magistrato eroicamente caduto nella strage di via D’Amelio, ha trasformato il suo immenso dolore in un motore di impegno civile, animando per decenni il movimento delle Agende Rosse e chiedendo a gran voce una verità completa sugli anni bui delle stragi. La sua tenacia è indiscutibile, il suo dolore merita il massimo rispetto. Tuttavia, proprio in nome di quella verità che egli persegue, è doveroso interrogarsi sulla direzione che le sue battaglie hanno preso negli ultimi anni, in particolare i suoi attacchi frontali e senza sconti ai nipoti, alla Commissione parlamentare antimafia e al Generale Mario Mori. Attacchi che, pur partendo da un’innegabile sete di giustizia, rischiano di diventare controproducenti, minando la credibilità della stessa causa che intende servire.
La critica più dolorosa, e forse la meno comprensibile, è quella rivolta alla nipote Fiammetta. Figlia di Paolo, Fiammetta Borsellino ha intrapreso un personale e coraggioso percorso di ricerca della verità, sollevando dubbi e interrogativi anche sulla gestione del primo processo sulla strage, inquinato dal falso pentito Vincenzo Scarantino. Le sue prese di posizione, a volte anche critiche verso l’operato di alcuni magistrati del pool di suo padre, le sono costate l’accusa, da parte dello zio Salvatore, di “attaccare la memoria del padre”. Ma è un’accusa profondamente ingiusta. Fiammetta, come ogni familiare di una vittima di mafia, ha il diritto sacrosanto di percorrere la propria strada nel labirinto del lutto e della ricerca della verità. Imporle una versione “ufficiale” o un unico modo di onorare la memoria del padre è un atto di violenza intellettuale. La sua battaglia non è contro la memoria di Paolo Borsellino, ma per una comprensione più profonda e onesta degli eventi che portarono alla sua morte, anche a costo di mettere in discussione narrazioni consolidate.
Altrettanto problematica appare la sistematica delegittimazione della Commissione parlamentare antimafia. Indubbiamente, nel corso della sua storia, la Commissione ha avuto alti e bassi, momenti di grande incisività e fasi di stallo. È un organo politico, e come tale risente delle dinamiche e dei compromessi della politica. Tuttavia, attaccarla in maniera indiscriminata, bollandola come un’entità inutile o, peggio, collusa, significa indebolire uno degli strumenti principali con cui lo Stato cerca di analizzare e contrastare il fenomeno mafioso. Significa ignorare il lavoro di migliaia di pagine di relazioni, le testimonianze raccolte, le proposte legislative avanzate. La critica puntuale e circostanziata è non solo legittima, ma necessaria. La demolizione aprioristica, invece, fa il gioco di chi vorrebbe uno Stato disarmato di fronte alle mafie, privo anche degli strumenti di analisi e di indirizzo politico.
Infine, l’ossessione accusatoria nei confronti del Generale Mario Mori, ex comandante del Ros dei Carabinieri. Per anni, Salvatore Borsellino lo ha indicato come uno dei principali responsabili della mancata cattura di Bernardo Provenzano e come figura chiave della presunta “trattativa Stato-mafia”. Tuttavia, la storia processuale del Generale Mori racconta un’altra verità: una serie di assoluzioni, passate in giudicato, lo hanno scagionato da ogni accusa. L’ultima e più importante, nel processo sulla “trattativa”, ha sancito con formula piena la sua innocenza.
In uno Stato di diritto, la sentenza di un tribunale, specialmente quando definitiva, ha un peso. Continuare a dipingere il Generale Mori come un colpevole, nonostante le ripetute assoluzioni, significa sostituire la verità processuale con una propria personale convinzione, per quanto radicata e sofferta essa sia. Significa lanciare un messaggio pericoloso: che i processi non contano, che la giustizia è solo quella che conferma le nostre tesi. Un paradosso per chi ha speso la vita a chiedere giustizia nelle aule dei tribunali. Lo stesso Paolo Borsellino credeva fermamente nella legge e nel rigore del metodo giudiziario.
L’impegno di Salvatore Borsellino è stato prezioso e necessario. Ha tenuto accesi i riflettori quando molti volevano spegnerli. Ma l’abbraccio del dolore, se troppo stretto, rischia di soffocare. Soffoca il diritto di una figlia a cercare una propria verità, soffoca la legittimità di un’istituzione parlamentare, soffoca il principio fondamentale dello Stato di diritto per cui una persona è innocente fino a prova contraria e, a maggior ragione, dopo essere stata assolta.
La ricerca della verità non può trasformarsi in una caccia infinita a nemici reali o presunti, né può prescindere dal rispetto per le persone, per le istituzioni e per le sentenze. Pena la trasformazione di una giusta battaglia in una crociata personale che, alla fine, danneggia la memoria stessa che si vorrebbe onorare.
Aggiornato il 21 luglio 2025 alle ore 12:27