
George Orwell la definì Common decency, una sorta di senso di correttezza morale comune, in parte assimilabile a quel che oggi molti definiscono “buon senso” e del quale siamo miseramente privi. Temi di scottante attualità come il suicidio assistito, quando non osteggiato, sovvertono questo principio dimostrando che il livello minimo di civiltà è in grado di disumanizzarsi perdendo di vista l’umanità al centro del dilemma bioetico e lasciando il posto alla strategia politica o all’errata convinzione che il diritto possa sussistere senza fondamenti etico-filosofici. Da questa convinzione, al contrario, deriva il dirittismo, ossia l’idea che la dimensione giuridica sia slegata dal bene e dalla verità, ragion per cui il diritto può “fondare” il bene a seconda del tempo storico, individuandolo nelle oscillazioni culturali, morali, politiche. Ne consegue la legittimazione morale di qualunque desiderio e la pretesa che il diritto ne dia riconoscimento. Dal punto di vista liberale il principio da seguire non si radica nel bene, ma nella volontà del singolo in quanto autodeterminazione e nella funzione amministrativa del legislatore di garantire l’equilibrio tra le diverse volontà.
Una visione limitante e limitata perché, non considerando su cosa si fondi la volontà, ammette che il “consenso” da solo determini la giustezza di una scelta e che la scelta, in quanto tale, non possa o non debba essere discussa. Ovviamente non senza scivolare in quotidiane contraddizioni perché simile impostazione, se assunta nel suo carattere “puro”, impedisce qualunque limite negando la funzione stessa del diritto. Pertanto, una legge ingiusta, tradisce la ratio stessa del diritto il cui fine oggettivo è perseguire il bene comune. Qual è il bene perseguito legalizzando l’atto suicidiario di un paziente nel contesto di cura? Qual è la gerarchia di beni a cui si rifà chi appoggia, promuove o propone la legalizzazione del suicidio assistito? Sotto il profilo bioetico il suicidio assistito si differenzia dall’eutanasia, ma non figura come atto meno grave o “tollerabile” dal punto di vista morale. Urge sottolinearlo in quanto, nel dibattito attuale circa la proposta di legge che si accinge ad approdare in Parlamento, colma di gravi criticità biogiuridiche e bioetiche, avanzata dalle forze politiche di maggioranza, taluni appoggiano o promuovono iniziative atte a legalizzare il primo in quanto “male da tollerare” e “minore” rispetto alla prospettiva, tuttora nel regime dell’ipotetico nei contenuti, di un “male maggiore” che verrebbe proposto dai rappresentanti politici dell’opposizione di ispirazione eutanasica.
Il Ddl sul suicidio assistito presentato dal centrodestra, oltre a presentarsi colmo di criticità bioetiche e biogiuridiche, prima fra tutte l’avvallo di disporre in modo assoluto della propria vita fino alla sua soppressione diretta, non risponde a nessuna reale emergenza fattuale né giuridica. Non esiste nessun obbligo per il Parlamento di doversi pronunciare a seguito della sentenza 242/2019 (se domani la Consulta si pronuncerà in apertura all’eutanasia invitando il Parlamento a legiferare, cosa si farà? Una legge d’eccezione sull’eutanasia in determinate condizioni per evitare possibili leggi future più estensive?); nessun perseguimento del bene (il diritto a morire è un bene?); nessuna garanzia di metodo in grado di assicurare il riparo da derive peggiori, anzi aprirà la breccia del famoso e sottodimensionato “pendio scivoloso”, come la letteratura internazionale dimostra. Infine, normare non è un atto moralmente neutro: legiferare, approvare, supportare, incentivare, acconsentire a un male intrinseco oggettivo e come tale riconosciuto (in particolare, per coloro che da sempre si sono professati come difensori della vita e, a maggior ragione, per i difensori della fede) come tale dalla ragione significa acconsentire a quel male; se, nonostante questo accordo tra ragione e coscienza, il male viene perseguito allora si parla di cooperazione ad esso e responsabilità di quel che rappresenta e di quel che produce. Nel caso in questione, la responsabilità sarà di rendere conto di tre fattori fondamentali: il primo riguarda la resa “negoziabile” dei principi non negoziabili in favore al compromesso a ribasso.
Il secondo del “pendio scivoloso” – come già accaduto da tempo nei Paesi che si sono determinati alla legalizzazione della morte assistita – che seguirà inevitabilmente la scelta di fornire copertura giuridica a chi aiuta un malato, esausto della vita, a rinunciare alla speranza dandosi la morte; infine, la legge creerà inevitabilmente una forma mentis socio-culturale decisamente contraria alla vita, alla sua custodia, difesa, promozione, già indebolita nella common decency delle società occidentali. Quest’ultima preoccupazione viene sottolineata a più riprese dalle sentenze 135/2024 e soprattutto dalla più recente 66/2025 per cui la legalizzazione del suicidio assistito, quindi l’intervento da parte del legislatore, conserva il rischio dello sviluppo di una “pressione sociale indiretta” sulle persone fragili che, sentendosi autorizzate e giustificate dalla legge, giudicherebbero la possibilità di essere aiutati a suicidarsi come il “best interest” per sé, per la società, per lo Stato, per la famiglia. Se il motore dell’iniziativa è di agire così, per evitare uno scenario ipotetico, futuro, peggiore allora dovremmo aspettarci di vedere i cattolici cedere anche su altri fronti, come sulla droga o qualsiasi altro tema sociale ed eticamente rilevante in cui il mondo secolare e progressista vorrà intervenire in modo radicale. Si collezioneranno norme “a ribasso” sul male per giocare d’anticipo? È un vicolo cieco nel metodo e nella sostanza, soprattutto per la coscienza.
(*) Docente di Bioetica presso l’Universidad de Anahuac di Città del Messico
Aggiornato il 16 luglio 2025 alle ore 10:52