
Ci sono date che segnano l’inizio di qualcosa, e ci sono date che segnano un principio. Il 4 luglio 1776 è entrambe le cose. L’inizio di una nazione, certo, ma soprattutto è la proclamazione di una verità radicale: che l’uomo è nato libero, e che nessun potere può arrogarsi il diritto di disporre della sua vita, della sua coscienza, dei suoi sogni.
In quel giorno, in una sala modesta di Filadelfia, un pugno di uomini firmò con inchiostro e coraggio ciò che fino ad allora era rimasto implicito, sussurrato, sperato:
“Noi riteniamo che queste verità siano per noi evidenti: che tutti gli uomini sono creati uguali, che sono dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, tra i quali la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità.”
Parole semplici, ma più rivoluzionarie di mille barricate. Perché non si limitavano a chiedere una Costituzione più equa o un sovrano più giusto. Dicevano qualcosa di molto più scomodo: che nessun sovrano ha il diritto di comandare senza consenso, che la sovranità appartiene al popolo e che quando un governo calpesta la libertà, non è solo illegittimo, è da abbattere.
Non fu un atto di ribellione. Fu un atto di fondazione. Non nasceva solo uno Stato. Nasceva un’idea: che l’individuo precede il potere, che i diritti non sono concessi dall’alto, ma riconosciuti dalla ragione e dalla natura.
Nasceva la modernità liberale.
L’America, certo, non fu perfetta. Ebbe le sue contraddizioni, i suoi ritardi, i suoi drammi. Ma è in quel principio ‒ nella centralità della libertà ‒ che si trova il segreto della sua grandezza. Non nelle guerre vinte, né nell’economia fiorente.
È l’idea della libertà che ha acceso le menti, attratto milioni di uomini e donne da ogni parte del mondo, ispirato innovazione, creatività, dissenso, ribellione, progresso.
Dove l’Europa ha costruito le sue nazioni attorno a identità culturali, tradizioni e storie profonde che definiscono chi siamo e da dove veniamo, l’America si è fondata su un concetto: la libertà individuale come fondamento dell’ordine politico.
E attorno a essa ha costruito un sistema ‒ imperfetto, come tutti i sistemi umani ‒ ma profondamente rivoluzionario. Un sistema che afferma che il potere va limitato, separato, diviso, controllato. Che lo Stato non è Dio. Che le libertà vengono prima delle leggi, e non dopo.
Ecco perché il 4 luglio non è solo una festa americana.
È una festa che parla anche a noi, europei che conosciamo bene il valore profondo dell’identità, della cultura e della tradizione. Ma proprio in questa terra di radici antiche, dove la comunità e la storia sono pilastri imprescindibili, stiamo assistendo a un allontanamento pericoloso dalla vera idea di libertà.
Nel nome della “tutela”, dei “diritti” e di una “inclusività” spesso esasperata, si costruiscono nuovi vincoli, si moltiplicano regole che finiscono per soffocare lo spazio della responsabilità e della sovranità individuale.
Il 4 luglio ci ricorda invece che la libertà è un diritto naturale, non una concessione dello Stato, e che nessun ideale – per quanto nobile – può giustificare la sua riduzione.
In un mondo dove la parola “libertà” viene spesso svuotata, fraintesa o persino ridicolizzata, vale la pena ricordare che una nazione fondata su quel principio è diventata la più potente, la più innovativa, la più attrattiva del mondo.
Non perché priva di difetti. Ma perché nata sotto il segno più pericoloso e fecondo che esista: la libertà.
Dio benedica l’America.
Aggiornato il 04 luglio 2025 alle ore 10:32