
Mentre la burocrazia strangola ogni soluzione, l’Italia continua a sprecare l’oro blu: Un fallimento annunciato ma nessuno paga il conto
Nel silenzio delle condutture colabrodo e delle dighe interrate, ogni giorno l’Italia perde un bene essenziale. Secondo le rilevazioni ufficiali più recenti quasi la metà dell’acqua potabile non arriva mai a destinazione. Si dissolve nella rete, tra giunture che nessuno ripara e tubature che nessuno aggiorna. Il tutto mentre il cittadino paga bollette salate per un servizio che nessuno controlla davvero.
Questa non è una storia di emergenza. È la cronaca di una gestione collettiva senza padrone, dove nessuno risponde di nulla. Quando l’acqua è di tutti, nessuno se ne cura. Quando le infrastrutture sono di tutti, nessuno le mantiene. Quando le risorse sono pubbliche, i costi ricadono sui soliti: chi lavora, chi produce, chi vive lontano dai centri del potere.
Lo Stato – con le sue promesse paternalistiche – ha costruito una gigantesca illusione: che tutto possa essere garantito a prescindere da chi lo gestisce. Ma la realtà è un’altra. In Basilicata si perde oltre il 70 per cento dell’acqua, in Sardegna oltre il 50 per cento, in Calabria il 48,7 per cento. Pe non parlare di alcuni capoluoghi di provincia, che registrano dispersioni ben oltre il 70 per cento. E la burocrazia pretende di “difendere l’acqua” con leggi, regolamenti, enti e slogan. Nessuno, però, si assume la responsabilità degli sprechi.
Nel frattempo, la pioggia cade e se ne va. Da anni, le organizzazioni agricole denunciano che tratteniamo solo una minima parte dell’acqua piovana. Perché costruire nuovi invasi è un’impresa impossibile, fra ostacoli normativi e permessi che impiegano anni. Invece di incentivare soluzioni rapide, modulari, private, il sistema premia l’immobilismo. Chi vuole risolvere il problema deve attendere permessi infiniti, subire ricorsi, affrontare cavilli che sembrano progettati per scoraggiare ogni iniziativa.
Le dighe, che dovrebbero garantire sicurezza idrica e produzione elettrica, sono abbandonate all’interramento. E quando le centrali idroelettriche rallentano, la colpa viene attribuita al clima. In realtà, il degrado è il frutto dell’assenza di interesse diretto: nessun gestore risponde in base ai risultati. La manutenzione non conviene a chi è certo che il proprio posto dipenda dal regolamento, non dal merito.
Per invertire la rotta, occorre cambiare principio: niente più gestione centralizzata, niente più monopoli di fatto. Ogni rete, ogni condotta, ogni impianto deve avere un responsabile visibile, giudicabile, sostituibile. Solo chi rischia risorse proprie ha interesse a evitare sprechi. Solo chi trae vantaggio dall’efficienza ha motivo per innovare. Dove le regole sono astratte e le responsabilità diluite, tutto si degrada. Dove i contratti sono chiari e le condizioni trasparenti, i servizi migliorano.
Gli incentivi contano più delle intenzioni. Dove si premia la produttività, l’acqua arriva. Dove si punisce il fallimento, le perdite calano. Le tariffe devono riflettere la qualità del servizio, non i capricci della politica. Le gare devono essere vere, aperte, contendibili. E chi non mantiene gli standard dev’essere escluso, senza protezioni. Ogni risorsa scarsa merita attenzione: quella vera, non quella dettata da uffici centrali e logiche ministeriali.
Servono regole certe, poche e chiare. Ma soprattutto serve spazio per chi sa fare. La pretesa che tutto debba essere controllato dall’alto ha prodotto soltanto inefficienza e disuguaglianze. Chi paga di più spesso riceve meno, e chi vive in territori “protetti” gode di privilegi immeritati. La retorica della solidarietà serve solo a mascherare il potere dell’apparato.
L’acqua è preziosa, ma non sacra. Non basta chiamarla “diritto” per farla sgorgare. Occorre volontà, competenza, responsabilità. Tutto ciò che il sistema attuale respinge per principio. L’ossessione per il controllo ha trasformato un bene disponibile in una crisi cronica. Un diritto senza efficienza è una promessa vuota.
O si cambia modello, o si accetta il declino. Il primo passo è ridurre il potere di chi ha fallito: enti inadempienti, gestioni politiche, pianificazioni astratte.
Il secondo è restituire fiducia a chi può davvero agire: individui, imprese, comunità locali. Nessuna autorità centrale conosce le necessità di chi apre il rubinetto. E nessuna riforma avrà successo finché il principio sarà: “Tutti responsabili, quindi nessuno”.
Serve meno protezione e più responsabilità. Meno interventi e più fiducia. Meno proclami e più risultati. L’acqua sarà salva solo quando smetterà di essere una proprietà pubblica maltrattata, e tornerà a essere un bene gestito con l’attenzione che si dedica a ciò che è nostro davvero.
Aggiornato il 30 maggio 2025 alle ore 10:47