
Le sentenze numero 68 e numero 69 del 2025 della Corte costituzionale italiana configurano un momento emblematico di frattura ontologica e normativa nell’epoca contemporanea, offrendo un vivido specchio della crisi metafisica che attraversa la giurisprudenza e il pensiero giuridico. Esse appaiono contraddittorie eppure convergenti nel negare il fondamento dell’ordinamento giuridico nel principio ontologico dell’essere, ovvero nella “participatione legis aeterna” da parte della creatura razionale. In tal modo, si disvela un’oscillazione irrisolta tra due poli normativi antitetici, che rivelano le aporie profonde di un diritto disancorato dalla sua radice naturale e teleologica.
La sentenza numero 68 istituisce il paradigma della volontà sovrana, ponendo la mera intenzione procreativa quale principio generatore di un vincolo giuridico, scindendo radicalmente la genitorialità dalla sua causa formale e finale inscritta nella natura umana. La genitorialità, nella prospettiva aristotelico-tomista, è atto della forma che dà sostanza alla materia, un principio ordinante in vista di un fine trascendente: la formazione di una famiglia naturale, fondata sull’unità sostanziale e teleologica dell’unione coniugale tra uomo e donna. Con la sentenza numero 68, tale principio viene ribaltato: la volontà intenzionale assume valore creatore, disgiunta dall’essere e dal fine, e il diritto si riduce a mera tecnica di costruzione di realtà giuridiche fittizie, in cui il figlio non è più persona in rapporto di dono, ma prodotto di un arbitrio normativo. Si realizza così una frattura ontologica, ove la natura è sconfitta dalla volontà soggettiva, la sostanza dalla funzione, la causa formale dal desiderio.
Dall’altro lato, la sentenza numero 69, nella sua apparente tutela dell’ordine naturale attraverso il rifiuto dell’accesso alla procreazione assistita per donne sole, tradisce in realtà un fondamento fragile e contingente. L’argomentazione si basa su criteri empirici e prudenziali, privi di una solida base metafisica o teleologica: statistiche, valutazioni sociali e pedagogiche emergono come sostituti di un vero principio normativo. Così, la norma non è espressione di un ordine dell’essere, ma di una prudenza immanente e mutevole, che si presta ad arbitrarie modulazioni. Si manifesta quindi un’incoerenza paradigmatica: da un lato, la volontà è assolutizzata e creatrice di diritto; dall’altro, la stessa volontà è limitata e condizionata da parametri empirici che nulla hanno a che vedere con la natura ontologica della persona e della famiglia.
La tensione tra queste due sentenze esprime un’aporia fondamentale: l’assenza di un principio unificatore che riconduca la norma al suo fondamento nell’essere. La volontà soggettiva, elevata a criterio normativo assoluto nella sentenza 68, si scontra con la debolezza di una norma che si limita a operare una scelta prudenziale contingente nella sentenza 69. Tale dualismo genera una disarmonia concettuale che riflette il crollo della ratio legis come manifestazione della ragione ordinante e teleologica. L’ordinamento giuridico si sfalda in un sistema frammentato, incapace di fondare una vera giustizia, e sempre più prigioniero di un relativismo nichilistico che ne erode la legittimità. In definitiva, le sentenze 68 e 69 manifestano in modo emblematico la decadenza della giurisprudenza contemporanea, consegnata a un paradigma volontarista privo di fondamento ontologico e a una prudenza empirica incapace di fondare un vero principio normativo. La loro incompatibilità non è superficiale ma strutturale: esse mettono a nudo la crisi della partecipazione del diritto positivo alla lex aeterna e alla lex naturalis, riflettendo un orizzonte in cui il diritto si svuota del suo senso trascendente e si riduce a mera tecnica di gestione dei desideri e delle contingenze. Solo un recupero della metafisica classica dell’essere e della teleologia aristotelico-tomista del diritto naturale può ricostruire l’unità e la coerenza del diritto come ordo rationis orientato al bene comune. Senza tale fondamento, il diritto rimane prigioniero di un nichilismo normativo che ne mina la stessa essenza, condannandolo a un eterno conflitto interno e all’irrimediabile disgregazione: “Ubi voluntas regnat, ratio tacet”.
Aggiornato il 23 maggio 2025 alle ore 11:24