
È con profondo rispetto e partecipazione che si deve innanzitutto contemplare il dolore della famiglia Cecchettin, il cui lutto merita silenzio, discrezione e una compassione che nulla ha a che vedere con la strumentalizzazione ideologica. Il dolore innocente sfugge alla categoria del concetto, e proprio per questo reclama una verità che non può essere sacrificata all’utile politico o all’emotività pubblica. Esso chiede giustizia, non retorica; chiede discernimento, non slogan. Il proliferare, a partire da eventi tragici, di iniziative pedagogiche e istituzionali fondate sull’idea di un “patriarcato sistemico” che permeerebbe la società italiana, sino alle sue radici infantili, appare non solo filosoficamente infondato, ma anche eticamente dubbio. É per questo che sono profondamente contrario alle iniziative che la Fondazione Cecchettin intende portare nelle scuole a partire da quelle dell’infanzia. La categoria di “patriarcato”, così come oggi viene impiegata nei discorsi correnti, è concettualmente evanescente: essa non designa una struttura determinata, empiricamente descrivibile e razionalmente discutibile, bensì assume la forma di un mito ideologico, il cui compito non è tanto comprendere quanto spiegare tutto attraverso un’unica chiave ermeneutica.
Il ricorso sistematico a categorie totalizzanti, come “patriarcato”, rientra in quella deriva ideologica che la filosofia classica, da Platone a Tommaso d’Aquino, ha sempre combattuto: la sostituzione del logos con il dogma, della ragione con la costruzione artificiale del reale. In tale prospettiva, l’idea di una pervasiva oppressione maschile non è un dato da verificare, quanto un assioma da cui dedurre ogni interpretazione. Non si osserva la realtà per conoscerla, ma la si rifrange attraverso un paradigma ideologico già costituito, rendendo impossibile ogni autentico esercizio della ragione. Ora, in Italia, ciò che viene descritto come “patriarcato” non trova riscontro nei fatti. Lo stesso diritto positivo riconosce pienamente la pari dignità e i medesimi diritti all’uomo e alla donna; le istituzioni sono permeabili alla partecipazione femminile; le professioni, le cariche pubbliche, l’educazione e il lavoro non sono più luoghi di esclusione. Se permangono squilibri, essi sono frutto non di un sistema di dominio, ma di una molteplicità di fattori, antropologici, esistenziali, culturali, che non possono essere ridotti a una logica binaria di oppressori e oppressi. L’errore filosofico, e quindi pedagogico, più grave risiede qui: nel voler reinterpretare la relazione tra i sessi come una dialettica di potere, secondo l’asse hegeliano servo-padrone riattualizzato in chiave postmoderna. Tale visione dissolve la realtà del maschile e del femminile nella lotta ideologica, impedendo l’intuizione della loro complementarità ontologica, che è invece la vera radice del rispetto e della giustizia. In questa luce, l’idea di rieducare i bambini sin dalla più tenera età alla “decostruzione del patriarcato” non è soltanto inutile: è una forma di violenza simbolica, che agisce sull’anima del fanciullo per inoculargli una visione deformata dell’altro, insegnandogli a diffidare prima ancora di conoscere.
La pedagogia così intesa non è più formazione alla verità, ma ingegneria culturale: un esercizio di potere sul pensiero, che, paradossalmente, si traveste da liberazione. In ciò si manifesta il tratto più inquietante dell’ideologia: la pretesa di correggere la realtà a partire da un modello astratto, fabbricato a tavolino. Tuttavia, la persona umana non è materia malleabile, né mero prodotto sociale: è un essere dotato di natura, di fini, di libertà radicata in un ordine intelligibile. Intervenire in modo massivo sulla coscienza in formazione dei bambini per trasmettere categorie ideologiche non è solo un errore teorico: è una colpa morale. Una società veramente giusta non si costruisce sulla demonizzazione di un sesso né sulla trasmissione sistematica del sospetto. Si costruisce sul riconoscimento del bene, sul culto della verità, sul rispetto della legge naturale inscritta nell’essere. In questo orizzonte, la tragica morte di una giovane donna deve interrogare le coscienze, non essere sfruttata per alimentare narrazioni che, lungi dal promuovere la giustizia, servono interessi ideologici. La filosofia, se vuol essere fedele a sé stessa, ha il dovere di dirlo, anche quando il tempo della commozione sembrerebbe esigere il silenzio. Nulla è più rispettoso del dolore che il pensiero che cerca la verità.
Aggiornato il 15 maggio 2025 alle ore 15:00