
È appena scomparso Papa Francesco, ma il suo pensiero, le sue parole sono rimaste scolpite nella loro aderenza al Vangelo, tanto innovativa quanto ad esso fedele.
Ci è rimasto particolarmente impresso il suo pensiero circa le finalità di un diritto penale che deve mirare più al recupero ed al reinserimento sociale di coloro che hanno sbagliato, che ad una sorta di perenne stigma sociale e morale.
Molto significativi si sono rivelati nella materia in questione, i suoi discorsi all’Associazione Internazionale di Diritto Penale (2014 e 2019).
Il 23 ottobre 2014, ad un anno e mezzo dalla sua elezione, alla Sala dei Papi, tenne un discorso alla Delegazione dell’Associazione internazionale di Diritto penale, esprimendo preliminarmente il suo ringraziamento per servizio reso alla società e per il prezioso contributo allo sviluppo di una giustizia che rispettasse “la dignità e i diritti della persona umana, senza discriminazioni”.
Preliminarmente volle porre due premesse di natura sociologica che riguardavano l’incitazione alla vendetta ed il populismo penale.
Quanto al primo punto, osservò che si viveva in un periodo nel quale, tanto da alcuni settori della politica come da parte di alcuni mezzi di comunicazione, si incitava talvolta alla violenza ed alla vendetta, pubblica e privata, non solo contro quanti erano responsabili di aver commesso delitti, ma anche contro coloro sui quali ricadeva “il sospetto, fondato o meno, di aver infranto la legge”.
In ordine al secondo, tenne a sottolineare che negli ultimi decenni si era diffusa la convinzione che attraverso la pena pubblica si potessero risolvere i più disparati problemi sociali “come se – disse – per le più diverse malattie ci venisse raccomandata la medesima medicina”.
Non si cercavano soltanto dei “capri espiatori” che pagassero con la loro libertà e con la loro vita per tutti i mali sociali, come era tipico nelle società primitive, ma vi era talora addirittura la tendenza a costruire deliberatamente dei nemici: “Figure stereotipate – avvertì – che concentrano in se stesse tutte le caratteristiche che la società percepisce o interpreta come minacciose. I meccanismi di formazione di queste immagini sono i medesimi che, a suo tempo, permisero l’espansione delle idee razziste”.
Stando così le cose, il sistema penale andava oltre la sua funzione propriamente sanzionatoria e si poneva sul terreno delle libertà e dei diritti delle persone, soprattutto di quelle più vulnerabili, in nome di una finalità preventiva la cui efficacia, fino ad allora, non si era potuta dimostrare, neppure per le pene più gravi, come quella di morte. C’era dunque il rischio di non conservare neppure la proporzionalità delle pene, che storicamente rifletteva la scala di valori tutelati dallo Stato.
Si era affievolita la concezione del diritto penale come ultima ratio, come ultimo ricorso alla sanzione, limitato ai fatti più gravi contro gli interessi individuali e collettivi maggiormente bisognosi di protezione. Si era altresì affievolito il dibattito sulla sostituzione del carcere con delle altre sanzioni penali alternative.
In tale contesto, la missione dei giuristi non poteva essere altro che quella di limitare e di contenere le tendenze evidenziate. Era un compito difficile, in tempi nei quali molti giudici ed operatori del sistema penale dovevano svolgere la loro mansione sotto la pressione dei mezzi di comunicazione di massa, di alcuni politici senza scrupoli e delle pulsioni di vendetta che serpeggiavano nella società.
Non era accettabile la pena capitale, praticata in numerosi Paesi – già condannata dal predecessore Giovanni Paolo II e dallo stesso Catechismo della Chiesa cattolica – per difendere dall’aggressore la vita di altre persone.
In alcuni Stati vi erano degli omicidi veri e propri commessi dai loro agenti, spesso camuffati come scontri con delinquenti o presentati quali conseguenze indesiderate dell’uso ragionevole, necessario e proporzionale della forza per far applicare la legge.
Gli argomenti contrari alla pena di morte erano vari, come la possibilità dell’esistenza dell’errore giudiziario, e l’uso che di tale pena facevano i regimi dittatoriali, che la utilizzavano come strumento di repressione della dissidenza politica o di persecuzione delle minoranze religiose e culturali: tutte vittime queste, che per le loro rispettive legislazioni, erano da considerare “delinquenti”.
Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà erano pertanto chiamati non solo a contrastare la pena capitale, ma anche ad impegnarsi per migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà.
In tale prospettiva, nel Codice penale vaticano era stato abolito anche l’ergastolo, che costituiva una “pena di morte nascosta”.
La carcerazione preventiva – quando in forma abusiva procurava un anticipo della pena, precedente alla condanna, o come misura che si applicava di fronte al sospetto più o meno fondato di un delitto commesso – costituiva un’altra forma contemporanea di pena illecita occulta, al di là di una patina di legalità.
La costruzione di un sempre maggior numero di carceri non risolveva il problema, in aree dove il numero dei detenuti senza condanna superava il 50 per cento del totale.
Le deplorevoli condizioni detentive che si verificavano in diverse parti del pianeta costituivano spesso un autentico tratto inumano e degradante, molte volte prodotto delle deficienze del sistema penale; altre volte della carenza di infrastrutture e di pianificazione, mentre in non pochi casi non erano altro che il risultato dell’esercizio arbitrario e spietato del potere sulle persone private della libertà.
La reclusione nelle carceri di massima sicurezza costituiva una vera e propria tortura con l’isolamento esterno. Come dimostravano gli studi realizzati da diversi organismi di difesa dei diritti umani, la mancanza di stimoli sensoriali, la completa impossibilità di comunicazione e la assenza di contatti con altri esseri umani, provocavano sofferenze psichiche e fisiche come la paranoia, l’ansietà, la depressione e la perdita di peso ed incrementavano sensibilmente la tendenza al suicidio.
Le torture ormai non erano somministrate solamente come mezzo per ottenere un determinato fine, come la confessione o la delazione – pratiche caratteristiche della dottrina della sicurezza nazionale – ma costituivano un autentico plus di dolore che si aggiungeva ai mali propri della detenzione.
Gli Stati dovevano astenersi dal castigare penalmente i bambini, così come andava escluso o limitato il castigo di chi pativa infermità gravi o terminali, di donne incinte, di persone handicappate, di madri e padri che fossero gli unici responsabili di minori o di disabili; del pari, trattamenti particolari andavano riservati agli adulti ormai in età avanzata.
La corruzione era essa stessa anche un processo di morte: “Quando la vita muore, c’è corruzione” disse papa Francesco. Essa era un male più grande del peccato, costituendo “la vittoria delle apparenze sulla realtà e della sfacciataggine impudica sulla discrezione onorevole”; ma il Signore non si stancava di bussare alle porte dei corrotti.
In ultima analisi, la cautela nell’applicazione della pena doveva essere il principio ispiratore dei sistemi penali, ed il rispetto della dignità della persona umana non solo doveva operare come limite all’arbitrarietà ed agli eccessi degli agenti dello Stato, ma anche come criterio di orientamento per il perseguimento e la repressione di quelle condotte che rappresentavano i più gravi attacchi alla dignità ed integrità della persona umana.
Nel discorso pronunciato nella Sala Regia il 15 novembre 2019, il Sommo Pontefice rivolgendosi ai partecipanti al XX Congresso mondiale dell’Associazione internazionale di diritto penale, criticò preliminarmente “L’idolatria del mercato”, nel momento in cui alcuni settori economici esercitavano più potere che gli stessi Stati, in tempi di globalizzazione del capitale speculativo.
Il principio di massimizzazione del profitto, isolato da ogni altra considerazione, conduceva ad un modello di esclusione “automatico” che colpiva con violenza coloro che ne pativano i costi sociali ed economici, mentre si condannavano le generazioni future a pagarne gli effetti ambientali.
A seguire, il Santo Padre sottolineò che una delle frequenti omissioni del diritto penale, conseguenza della selettività sanzionatoria, era la scarsa o nulla attenzione che ricevevano i delitti dei più potenti, in particolare la macro-delinquenza delle corporazioni. Il capitale finanziario globale era all’origine di gravi delitti non solo contro la proprietà, ma anche contro le persone e l’ambiente. Si trattava “di criminalità organizzata responsabile, tra l’altro, del sovra-indebitamento degli Stati e del saccheggio delle risorse naturali del nostro pianeta”.
Si trattava di delitti che rivestivano la gravità di crimini contro l’umanità, conducendo alla fame, alla miseria, alla migrazione forzata ed alla morte per malattie evitabili, al disastro ambientale e all’etnocidio dei popoli indigeni.
Non dovevano restare impunite le contaminazioni massive dell’aria, delle risorse della terra e dell’acqua, la distruzione su larga scala di flora e fauna, e qualunque azione capace di produrre un disastro ecologico o di distruggere un ecosistema.
Erano peccati contro le future generazioni e si manifestavano negli atti e nelle abitudini di inquinamento e distruzione dell’armonia dell’ambiente, nelle trasgressioni contro i principi di interdipendenza e nella rottura delle reti di solidarietà tra le creature.
La cultura dello scarto, combinata con altri fenomeni psico-sociali diffusi nelle società del benessere, stava manifestando la grave tendenza a degenerare in cultura dell’odio. Si verificavano azioni tipiche del nazismo che, con le sue persecuzioni contro gli ebrei, gli zingari, le persone di orientamento omossessuale, rappresentava il modello negativo per eccellenza di cultura dello scarto e dell’odio.
Andavano combattuti i paradisi fiscali, come pure le appropriazioni di fondi pubblici, che passavano inosservati o erano minimizzati.
Tutto gli operatori del sistema penale erano chiamati a ricordare che la legge da sola non poteva mai realizzare gli scopi della funzione penale; ma che anche la sua applicazione doveva aver luogo in vista del bene effettivo delle persone interessate. Al tempo stesso, operando come strumento di giustizia sostanziale e non solo formale, la legge penale avrebbe potuto assolvere il compito di presidio reale ed efficace dei beni giuridici essenziali della collettività, nella prospettiva di una “giustizia penale restaurativa”.
Pertanto, le carceri dovevano essere funzionali ad una finalità di recupero del detenuto, alla sua rinascita, nella quale prospettiva occorreva ripensare seriamente la figura dell’ergastolo.
“Le nostre società – disse il Pontefice – sono chiamate ad avanzare verso un modello di giustizia fondato sul dialogo, sull’incontro, perché là dove possibile siano restaurati i legami intaccati dal delitto e riparato il danno recato. Non credo che sia un’utopia, ma certo è una grande sfida. Una sfida che dobbiamo affrontare tutti se vogliamo trattare i problemi della nostra convivenza civile in modo razionale, pacifico e democratico”.
Aggiornato il 28 aprile 2025 alle ore 11:50