
La sentenza numero 48 del 2025 della Corte costituzionale (redattore professor Giovanni Pitruzzella) si è pronunciata in merito alla legittimità costituzionale dell’articolo 1 della legge regionale della Puglia 30 maggio 2024, numero 22, che aveva inserito l’articolo 4-bis nella legge regionale 16 febbraio 2024, numero 1, in tema di prevenzione del carcinoma del collo dell’utero e delle patologie Hpv-correlate. In particolare, la disposizione normativa censurata subordinava l’iscrizione ai percorsi scolastici e universitari, per i soggetti di età compresa tra gli 11 e i 25 anni, alla presentazione di un’attestazione relativa alla vaccinazione anti-Hpv, all’avvio del ciclo vaccinale, ovvero all’espressione di un formale rifiuto della somministrazione del vaccino. L’impugnazione corretta, da parte del Governo Meloni in via d’azione ed ai sensi dell’articolo 127 della Costituzione vigente, ha invocato la violazione degli articoli 117, comma 3, e 32 della Costituzione, ritenendo che la Regione avesse esercitato una potestà legislativa eccedente rispetto ai limiti della competenza concorrente in materia di tutela della salute, incidendo sulla disciplina dei trattamenti sanitari obbligatori, materia riservata alla legge statale ai sensi del secondo comma dell’articolo 32 della Costituzione, e alterando altresì l’uniformità dei livelli essenziali delle prestazioni sanitarie e del diritto all’istruzione.
La Corte ha, però, rigettato l’obiezione, ritenendo che non si configuri un obbligo vaccinale in senso tecnico-giuridico. Secondo la motivazione del giudice delle leggi, la norma regionale non introdurrebbe una coercizione diretta alla vaccinazione, bensì si limiterebbe a prevedere un “modello dichiarativo” in cui l’adesione, l’avvio o il rifiuto al trattamento sono equipollenti ai fini dell’accesso all’istruzione. Da ciò la Corte fa discendere l’assenza di una compressione del diritto alla libertà individuale sanitaria, con conseguente irrilevanza della riserva di legge statale. Tuttavia, una lettura critica del “dictum” evidenzia non pochi profili problematici formali, sistematici e sostanziali. In primo luogo: la qualificazione della disposizione come non coercitiva è, a ben vedere, opinabile sul piano sostanziale. La previsione di un onere documentale da assolvere ai fini dell’accesso all’istruzione introduce, quantomeno, una forma di condizionamento indiretto all’esercizio di diritti costituzionalmente garantiti (articoli 33 e 34 della Costituzione), attraverso un meccanismo surrettiziamente selettivo. In secondo luogo, l’obbligo di dichiarazione esplicita del rifiuto si pone in potenziale contrasto con il diritto alla riservatezza sanitaria (articolo 2 della Costituzione, lettura sistemica con il regolamento Ue numero 679/2016), subordinando l’accesso a un servizio pubblico essenziale alla comunicazione di dati sensibili. Ancora più rilevante, sul piano ordinamentale, appare la tendenziale elusione della riserva statale in materia di trattamenti sanitari obbligatori, aspetto già visto, ma mai censurato, in materia di obbligo del possesso della certificazione verde Covid-19 per alcune categorie di lavoratori o per l’accesso a certi servizi o a certe strutture.
La stessa giurisprudenza costituzionale è costante nel ritenere che solo la legge statale possa introdurre obblighi di tal fatta, previa verifica di proporzionalità, necessità e adeguatezza (ex multis, sentenza numero 5/2018 e numero 307/1990). L’escamotage normativo pugliese si colloca, perciò, in una zona grigia che, pur non integrando formalmente un obbligo, produce effetti assimilabili sul piano pratico, con conseguente torsione dell’assetto costituzionale delle competenze. La Corte, nel suo sforzo di mantenere un equilibrio tra autonomie regionali e tutela della salute pubblica, sembra aver abdicato a una piena tutela dei principi fondamentali. L’assenza di una verifica sostanziale degli effetti della norma sul godimento dei diritti fondamentali, in particolare del diritto all’istruzione e alla libertà sanitaria, indebolisce il presidio costituzionale contro forme normative di pressione indiretta, che possono tradursi in una vera e propria coazione “per facta concludentia”. Infine: la Corte Costituzionale ha tralasciato di chiarire razionalmente da dove si possa e di debba desumere la proposta gerarchizzazione dei diritti fondamentali per cui il diritto allo studio possa e debba essere subordinato al diritto alla salute. Peraltro, semmai, la Consulta sembra aver trascurato il dato letterale e l’intero congegno logico e assiologico dell’articolo 32 della Costituzione che milita nella direzione opposta, identificando quello alla salute individuale come un vero e proprio diritto, e riducendo quello alla salute collettiva come un mero interesse, per cui non pare possibile – se non attraverso spericolate alchimie interpretative che si risolvono in palesi contrasti della lettera e dello spirito delle garanzie costituzionali – ritenere che il diritto fondamentale allo studio possa essere subordinato e recessivo rispetto all’interesse della salute collettiva. Ancora una volta l’intervento della Corte Costituzionale, dunque, pare afflitto da una congenita mancanza di logica giuridica sacrificata agli altari di una mal concepita logica sanitaria.
Aggiornato il 24 aprile 2025 alle ore 12:52