
La notizia della scomparsa di Papa Francesco ha scosso profondamente non solo il mondo cattolico, ma l’intera comunità internazionale. Nel silenzio che segue il clamore mediatico, ci troviamo a confrontarci, ancora una volta, con l’enigma più radicale dell’esistenza umana: la morte. Proprio quella morte che il pontificato di Francesco aveva affrontato con disarmante franchezza, parlando spesso della propria finitudine con la semplicità di chi sa che anche il Vicario di Cristo è sottoposto al tramonto terreno.
In queste ore di commemorazioni e di bilanci su un pontificato che ha segnato profondamente la Chiesa contemporanea, emerge con forza la domanda fondamentale che attraversa duemila anni di cristianesimo: cosa significa veramente credere nella resurrezione?
La risposta è radicata nella condizione umana stessa. L’uomo è consapevole della propria morte, e questa consapevolezza genera un’angoscia esistenziale che nessuna filosofia consolatoria può completamente placare. Paolo di Tarso, nella Prima Lettera ai Corinzi, coglie questa verità quando afferma: “Se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede” (1 Cor 15,17). Non si tratta di un dettaglio marginale, ma della pietra angolare dell’intero edificio cristiano.
Il cristianesimo non offre una risposta evasiva alla questione della morte, né la semplice promessa di una continuazione spirituale disincarnata. Al contrario, propone qualcosa di enormemente più audace: la resurrezione della carne, la trasformazione dell’intera persona umana in una nuova condizione di vita. “Ecco, io vi annuncio un mistero”, scrive ancora Paolo, “tutti saremo trasformati” (1 Cor 15,51).
Ma è qui che il pensiero di Emanuele Severino, uno dei più radicali e profondi filosofi italiani contemporanei, ci interpella con una domanda inquietante: e se la stessa concezione cristiana della resurrezione non riuscisse a oltrepassare pienamente il problema della morte?
Severino, nella sua rigorosa riflessione sul rapporto tra essere e nulla, ci suggerisce un paradosso sorprendente: la resurrezione cristiana, nel suo presupporre che prima si debba morire (nel senso di diventare nulla) per poi risorgere, non resta forse ancora prigioniera di quel “nichilismo” che ha dominato l’intero pensiero occidentale? Non perpetua forse, pur nel suo tentativo di superarla, l’idea che l’essere possa davvero diventare niente?
In questo senso, la resurrezione dei corpi presuppone quell’annientamento che Severino considera il vero “pungiglione della morte” e la grande contraddizione del pensiero occidentale. Come potrebbe infatti risorgere ciò che non è stato prima annientato?
La provocazione del filosofo bresciano scuote le certezze tanto del pensiero laico quanto di quello religioso: “L’essere è e non può non essere”. Ogni ente è eternamente se stesso, non può venire dal nulla né tornare al nulla. Inoltre, anche se non si può che accennare, ciò che attende ogni uomo è l’infinito dispiegarsi della Gloria che, nel linguaggio di Severino, significa l’asintotico farsi infinito del finito.
Non siamo forse di fronte a una possibilità ancora più vertiginosa della stessa resurrezione? Non potrebbe essere che ciò che chiamiamo resurrezione sia in realtà la metafora imperfetta di un destino ancora più radicale: non il ritorno dall’annientamento, ma la manifestazione gloriosa di ciò che non ha mai cessato di essere? Non potremmo essere attesi da qualcosa di più immenso della resurrezione stessa, quella Gloria e quella Gioia di cui parla Severino, dove non c’è bisogno di ritornare dall’annientamento perché l’annientamento stesso è impossibile?
Il cristianesimo, con la sua insistenza sulla serietà della morte e la speranza della resurrezione, ha avuto il merito storico di non evadere dal problema fondamentale dell’esistenza umana. Ma oggi, illuminati anche dalla provocazione filosofica di Severino, potremmo essere chiamati a pensare a questo mistero in termini ancora più radicali: non si tratta di annientamento e poi ritorno, ma di un’eternità dell’essere che attende di manifestarsi nella sua Gloria.
Mentre accompagniamo l’ultimo viaggio terreno di Jorge Mario Bergoglio, la domanda sul destino ultimo dell’essere umano rimane aperta davanti a noi. Non come questione teorica, ma come interrogativo esistenziale che tocca il cuore stesso della condizione umana.
“Io sono la resurrezione e la vita”, dice Gesù nel Vangelo di Giovanni (Gv 11,25). Potremmo oggi essere invitati a leggere queste parole in una luce nuova: non come promessa di un ritorno dall’annientamento, ma come rivelazione che la vita autentica, nella sua eterna gloria, non è mai veramente toccata dall’annientamento. L’essere, in tutte le sue manifestazioni, permane eternamente. E forse è questa la Gioia più grande da cui siamo attesi?
Aggiornato il 23 aprile 2025 alle ore 10:37