
Non sono stati i cambiamenti sociali ad aver ucciso il commercio urbano, ma l’incapacità del potere politico di lasciarli evolvere liberamente.
La desertificazione commerciale che ha colpito i centri storici italiani – pure documentata dal rapporto Confcommercio – è prima di tutto un fenomeno sociale. In un decennio sono scomparsi 111.877 negozi al dettaglio, pari a un calo del 21,4 per cento, e oltre 23.000 attività di commercio ambulante, con una riduzione del 24,4 per cento. Nei centri storici, in particolare, hanno chiuso i battenti più di 42.000 esercizi.
A ben vedere, però, non è stata la tecnologia, né Amazon, né i centri commerciali a distruggere il commercio tradizionale. A cambiare, innanzitutto, sono stati gli stili di vita delle famiglie, delle persone, delle comunità.
L’Italia del 2025, infatti, non è quella del 1995. I nuclei familiari si sono ridotti, il tempo da dedicare agli acquisti di prossimità è diminuito, le donne lavorano più di prima, gli orari sono più flessibili, le relazioni di vicinato si sono diradate. L’acquisto quotidiano sotto casa è stato sostituito da una pianificazione settimanale, spesso online, e da una logica di comodità che ha poco a che fare con la passeggiata tra le vetrine. È una trasformazione naturale, frutto di maggiore mobilità, di urbanizzazione, di nuove esigenze. Eppure, questo cambiamento non è stato accompagnato, ma contrastato. Invece di agevolare un adattamento spontaneo, il sistema politico-istituzionale ha scelto di irrigidire, conservare, trattenere. È qui che entra in scena il vero colpevole della desertificazione urbana: la paralisi della libertà economica.
A fronte di un mercato in evoluzione, lo Stato ha preferito imporre vincoli e burocrazia. Regolamenti inutilmente complessi, tassazioni locali esorbitanti, imposizioni sui canoni di locazione, piani regolatori che cristallizzano il passato anziché aprire al futuro. Chi avrebbe voluto ristrutturare un locale, cambiare destinazione d’uso, riconvertire una bottega, abbattere le barriere normative, aprire nuove forme di attività, è stato disincentivato, ostacolato, spesso fermato. I centri storici si sono così svuotati due volte: prima, per effetto del mutamento sociale; poi, per l’impossibilità di dare una risposta libera al cambiamento.
Nel frattempo, mentre i governanti parlavano di rigenerazione urbana, si moltiplicavano i bandi, i piani triennali, i progetti sperimentali: misure pensate dall’alto, nella convinzione che una cabina di regia pubblica potesse rianimare ciò che il mercato, se lasciato libero, avrebbe saputo trasformare.
Il piccolo commercio, che un tempo era dinamico e resiliente, è stato trattato come un reperto da musealizzare, invece che come un organismo vivo da rinnovare. Con risultati modesti, quando non dannosi.
In molte città si è assistito a un impoverimento rapido e diffuso del tessuto commerciale, con interi quartieri svuotati delle loro attività storiche. Laddove si è lasciato spazio all’iniziativa privata, si è potuto resistere meglio; dove invece hanno prevalso vincoli, pianificazione e controlli, il declino è stato più marcato e irreversibile.
Dinanzi a tutto ciò, c’è da chiedersi: chi ha perso di più in questo processo? I proprietari degli immobili, colpiti da Imu e Tari anche su locali sfitti e improduttivi. I commercianti, costretti a rispettare regole pensate per contesti ormai superati. Ma anche i cittadini, privati di quei luoghi di relazione che una volta erano i negozi, le botteghe, i piccoli esercizi. La vera ricchezza dei centri storici non sta nella bellezza delle facciate, ma nella vita che vi si svolge, fatta di scambi, fiducia, relazioni spontanee. Quando il libero mercato viene impedito di operare, quella vita scompare.
Il fenomeno, comunque, non è solo economico, ma profondamente civile. I negozi di quartiere sono un presidio sociale. Le vetrine illuminate aumentano la sicurezza, il passaggio quotidiano crea comunità. Senza di essi, i centri si spengono e la percezione di degrado cresce. Ma tutto questo si dimentica quando si insiste nel considerare la proprietà privata un problema, il profitto un sospetto, l’iniziativa imprenditoriale un’eccezione da autorizzare.
La lezione è chiara. Le città non si svuotano perché i cittadini sono pigri o insensibili, ma perché non si consente loro di rispondere liberamente al cambiamento. Le famiglie e gli individui si evolvono. È il contesto che deve permettere, non impedire. Invece, si continuano a gestire le trasformazioni sociali con strumenti amministrativi obsoleti. Si illudono i cittadini con bandi a tempo, si vincolano i proprietari, si soffocano le alternative. Si dimentica che solo la libertà genera ordine, e solo la proprietà garantisce responsabilità.
Come ha rilevato Ludwig von Mises: “Il capitalismo non ha creato la povertà, ma ha creato la possibilità di sfuggirvi”. Così anche il commercio urbano non si salva con la nostalgia o con le ordinanze, ma con la libertà: di cambiare, di fallire, di sperimentare. Se si vuole salvare ciò che resta dei nostri centri storici, bisogna smettere di proteggerli con decreti e cominciare a liberarli dalle catene.
In fondo, non si tratta solo di negozi, ma di un’idea di società. Una società che sa evolvere senza pianificazione, grazie alla libertà di chi la vive ogni giorno. “La città è un fatto d’amore ‒ ha scritto Italo Calvino ‒ è fatta per chi la ama”. E per chi la lascia libera: “Libertas est potestas vivendi ut velis” (Cicerone).
Aggiornato il 07 aprile 2025 alle ore 10:08