
Al 75° Festival di Sanremo si addice perfettamente la definizione che Arrigo Sacchi coniò per il calcio: “La cosa più importante tra quelle meno importanti”. Ovviamente, questo è il punto di vista di chi scrive, un semplice spettatore che ama trascorrere qualche ora con leggerezza tra musica commerciale, spettacolo nazionalpopolare e quella curiosità fisiologica racchiusa nell’epitome: “chissà cosa accadrà”. So bene, però, che l’evento canoro è un appuntamento fondamentale per la programmazione Rai, soprattutto per quanto riguarda gli introiti pubblicitari, sia attuali che futuri. Alla luce di ciò, ho trovato davvero stucchevoli le polemiche sorte attorno al brano di Simone Cristicchi. Come da tradizione nel nostro Paese, si sono subito formate tifoserie contrapposte in un’ottica manichea: pro e contro. Ma né gli uni né gli altri, almeno nella maggior parte dei casi, hanno realmente valutato la qualità del pezzo: la musica, il testo e tutti quei tecnicismi che lascio volentieri agli esperti. Niente di tutto questo.
A sinistra –per dirla in modo diretto – Cristicchi è “out” perché, nonostante il suo background progressista, ha osato portare in scena uno spettacolo sul dramma delle foibe. Inoltre, ha trattato un tema forse troppo intimistico, basato su un rapporto diretto e privo di mediazioni tra due singole individualità, senza alcun riferimento sociale o civile ben connotato. Un uomo e una donna. Un figlio e una madre. Un legame ancestrale e biologico, puro e complice. Un legame che riflette l’universalità della condizione umana ma che, al tempo stesso, è proteso verso l’inesorabile fine che accomuna tutti noi in quanto esseri mortali. La relazione descritta nel brano è il frutto di un’istituzione che affonda le sue radici nella straordinaria e perenne normalità delle cose: l’anello al dito, il padre, il marito, il matrimonio – la cui etimologia deriva da mater, matris – e quindi il figlio, in una logica circolare limpida e, va da sé, slegata da altre definizioni di comodo. È un rapporto poco concettuale e molto carnale, in cui l’altro è così vicino da apparire come lo specchio del proprio volto. Insomma, non c’è spazio per differenti modulazioni di famiglie, identità di genere o spaccati sociali. Qui si parla dell’essenziale, di ciò che rimane una volta che il panta rei ha fatto il suo corso. Questo, ripeto, per la sinistra.
Poi ci siamo noi, a destra. Qui Cristicchi non è stato visto tanto come un artista, quanto piuttosto come l’ultimo baluardo identitario da difendere a tutti i costi, perché ha raccontato “la nostra storia”, parlando di quanto accaduto in Istria e Dalmazia. Non si è compreso, però, che se vogliamo davvero rendere giustizia a quei morti, prima o poi dovremo fare in modo che la nostra storia diventi la storia condivisa di tutti, anche di coloro i cui nonni si macchiarono di quelle stragi. Ma, soprattutto, non si è riusciti a superare quel complesso di inferiorità – atavico, sotteso, carsico eppure sempre presente – che la destra nutre nei confronti dei progressisti. Soprattutto quando qualcuno di loro decide di far propri alcuni dei nostri valori o, più in generale, due o tre cose in cui crediamo spontaneamente. Cristicchi è stato difeso per il tema affrontato, sebbene la musica non fosse memorabile. Diciamolo con onestà: la sua canzone che trionfò anni fa a Sanremo, incentrata sulla malattia mentale, era – mi permetto di dirlo – di ben altro spessore artistico.
Ergo, c’è stata una tendenza marcata a banalizzare un artista e il suo brano per ragioni ideologiche più che per considerazioni musicali. Eppure, ciò che dovrebbe contraddistinguere una visione minimamente liberale è la capacità di promuovere ed esaltare chi è bravo. Punto. Indipendentemente dalle sue convinzioni politiche o di altro tipo.
Aggiornato il 17 febbraio 2025 alle ore 17:41