Medicina a km 0

“Medicina a km 0” oggi ospita tre professionisti per parlare di Rems e Adhd nelle carceri. Si tratta della dottoressa Cristina Lemme, presidente dell’associazione Adhd Italia; del dottor Giuseppe Nicolò, psichiatra, tra i fondatori del terzo Centro di psicoterapia cognitiva di Roma e direttore del Dipartimento di salute mentale e delle dipendenze patologiche della Asl Roma 5; infine il dottor Stefano Anastasìa Giagni, Garante dei detenuti del Lazio e professore di Filosofia e Sociologia del Diritto.

Ogni Asl del Lazio ha un servizio psichiatrico di diagnosi e cura, per il ricovero ospedaliero, che può servire anche per ricoveri per cure urgenti. Non tutte le Asl hanno però ancora un polo Adhd aziendale per gli utenti che hanno necessità di terapie riabilitative mirate, terapie farmacologiche, anche cicli di parent training.

Se per i piccoli, qualora durante l’età scolare qualcuno sia in grado di rilevare la problematica per avviare una procedura anche di sostegno scolastico e le terapie adeguate, per cui l’accesso alle cure, nonostante non avvenga in modalità diretta, è attivato su richiesta del genitore o di un neuropsichiatra, per gli adulti non c’è la stessa opportunità.

Le persone affette da Adhd in adolescenza sono spesso depresse e comunque consapevoli di avere sensazioni che non sanno gestire e controllare ‒ come ha dichiarato la dottoressa Lemme nell’intervista ‒ per cui fanno spesso uso di psicofarmaci, ricorrono all’alcol e talvolta alle droghe. In ogni penitenziario italiano sono presenti almeno una decina di detenuti con disturbi mentali, senza personale idoneo per la loro gestione.

Dagli intervistati, abbiamo avuto conferma che nelle carceri italiane il numero delle persone detenute con l’Adhd si aggira fra il 23 e il 40 per cento. Una persona affetta da Adhd necessita di regole precise e inossidabili, di stabilità e di una quotidianità ben scandita e organizzata.

Qual è il posto più adatto, ci siamo chiesti, per i detenuti con l’Adhd?

Nelle Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) ci sono i pazienti condannati dai giudici ad una misura di sicurezza, autori di reato affetti da disturbi mentali e socialmente pericolosi.

Gli ospiti dell’intervista concordano che all’interno delle Rems ci siano molti pazienti che non necessitano di questa misura, mentre altri che ne hanno realmente bisogno si trovano in libertà vigilata ‒ che presuppone moltissime risorse ‒ agli arresti domiciliari o, peggio, in carcere, senza titolo detentivo valido. Proprio per quest’ultima situazione, il nostro Paese è stato condannato ben due volte per aver violato l’articolo 3 della Convenzione di Roma, in quanto è disumano tenere in carcere una persona che non ha il titolo per stare in carcere. Dall’ultima sentenza, che risale al 2020, non è però cambiato niente.

Centinaia di persone, inoltre, sono ancora prive di un piano territoriale di reinserimento sociale per uscire dalla Rems. La questione, a causa dei pochissimi posti nelle Rems e di una lunghissima lista d’attesa, è come si possano garantire le esigenze di cura degli autori di reato e di sicurezza della collettività. 

In Italia attualmente ci sono 30 Rems sparse per le varie regioni. Nel Lazio ne abbiamo 5: una a Ceccano con 25 posti, due a Palombara con 24 e 23 posti, una a Pontecorvo con 26 posti ed una a Subiaco con 20 posti. 

Due casi, per questo, sono risaltati all’occhio della cronaca recentemente, proprio perché in attesa del posto in Rems, nel frattempo si sono macchiati di omicidio: Ian Patrick Sardo, autore dell’omicidio di Caprarola e Erjon Behari, autore dell’omicidio di Spoleto

Aggiornato il 18 dicembre 2024 alle ore 15:26