Era un uomo vecchio, non anziano, vecchio significava anziano soltanto negli anni, vecchio come un albero, vecchio come un monumento: antico. Incredibile l’ammasso di vicende che lo colmavano, come epoche storiche o persino naturali. Epoche, realmente segnate dai rapporti, dalle ideazioni. Ecco, lui, timidissimo, impressionabilissimo, i cani, atterrito, il buio, e una necessità d’amore senza ritegno, vincolato alla madre che lo scostava dagli altri figli, amati, ma non quanto veniva amato lui, predilettissimo, lui pallido, magro, sognativo, che piangeva a vedere un povero, soffriva di ogni cosa soffrire eppure strappava le zampine alle mosche, ne bucava il cremoso ventre, recideva le ali e quelle a faticare per salvarsi e lui a goderne il vano sforzo, o le stringeva nelle tendine della finestre, e minuti prima aveva disperatissimo pianto, e gridato, e stretto a fermarli, quanti avevano circondato un ladro e lo pugnavano.
Ricordi, ora, vecchio, sì vecchio di ricordi, che talvolta gli attraversavano la mente luci dentro il buio. Ecco: bambino. Sentiva i tocchi delle campane, guardava, la chiesa madre del paesino, la grande casa malridotta del padre della madre, al centro del luogo, loro, i Bruno, i signori, forse ormai decaduti, troppi figli, e litigiosi, guarda giù, persone, e una bara a spalle, e silenzio, e gente che si muove cautamente, non cessa quel rintocco di campane, don don don, din din din, den den den, din don dan. Così, ripetuto, insistito, e giù quelle persone lente, vestite al meglio, pure se con mani intozzate, rustiche, e lui guardava, comprendeva e non comprendeva, bambino, ma qualcosa sentiva più che comprendere, e si immalinconiva, e gli scendeva con la sera un’ombra interna, aveva conosciuto quel lo avrebbe tormentato come un respiro che si strozza, non sapeva ancora come chiamarla, presente, le darà nome, era chiamata Morte.
Altri ricordi: bandiere al vento, ricordi sventolati, lui all’ingresso della abitazione degli antenati, il portone di legno forte e scrostato, pietre a corona, l’ingresso, la mangiatoia dei cavalli, e dall’altro lato l’abbeveratoio. Una scaletta, il piccolo ingresso, una panchina in legno nero, la finestra sul giardino, parti delle stanze mozze dai terremoti, il frastuono delle galline, di botto si alza e grida: Ponti distrutti indefiniti! Forse le rovine della guerra? Fu la espressione d’inizio della sua vita poi dedicata a esprimere non soltanto a vivere. Irrompe, ecco, ecco sovrasta, il ricordo incancellabile, torna, incombe, ancora bambino, un oggetto cade e si frantuma ed egli sente che la piccola sorella malata che muore. Lo sente, come la vedesse, e grida, e sembra vaneggi, no. In quell’istante la sorella muore, sola, lontana, forse nell’indifferenza di persone estranee, la deve ricordare, deve vendicarla, deve restare nella memoria, il suo volto dai larghi occhi scuri senza felicità. Ah, questo ricordo, lo agita, dilaga, la madre, cento anni, strappava anni alla vita per amore del figlio, e il figlio continuava adesso a vivere perché la madre esistesse sempre, per sempre. Ricordare: amare.
Aggiornato il 29 novembre 2024 alle ore 08:34