L’obbligo di utilizzare lo Spid o altri software di autenticazione per accedere ai contenuti pornografici, alle scommesse o al gioco d’azzardo online riaccende il dibattito sulla sorveglianza statale, e rendono più vive che mai, duecento anni dopo Mandeville, le tensioni tra moralità pubblica e scelte private.
Duecento anni fa, Bernard de Mandeville pubblicava Modesta difesa delle pubbliche case di piacere, un pamphlet audace e provocatorio che esplorava uno dei temi più controversi della sua epoca: la prostituzione. L’autore, già noto per il suo influente La favola delle api, in cui sosteneva il paradosso dei vizi privati come motore del bene pubblico, si addentrava con il nuovo saggio in una questione morale profondamente divisiva. La prostituzione, a suo avviso, era un male inevitabile, che la società condannava pubblicamente pur tollerandolo privatamente, per cui suggeriva che, piuttosto che sopprimerla, fosse più sensato regolamentarla. Nel farlo, tuttavia, non la difendeva in quanto tale sebbene ne riconoscesse la funzione come “valvola di sfogo” per gli impulsi umani, impedendo che essi sfociassero in violenze o disordini sociali.
Il suo pensiero provocatorio si basava su una comprensione della natura umana lontana dalle utopie moralistiche dell’epoca. Riteneva in particolare che l’uomo fosse, per sua stessa natura, incline ai vizi, e che gli stessi, anziché essere estirpati, dovessero essere controllati e incanalati per mantenere un ordine sociale. Nella sua visione, infatti, i comportamenti che venivano moralmente condannati contribuivano, in realtà, alla prosperità economica e alla stabilità sociale, come del resto aveva emblematicamente scritto ne La favola delle api: “I vizi privati sono benefici pubblici”, una delle sue affermazioni più famose. Riteneva pertanto che tentare di estirpare i vizi umani avrebbe condotto a conseguenze ben più nefaste, impoverendo la società e generando ipocrisia e inganno.
Proprio questa capacità di comprendere il paradosso tra moralità e utilità è rilevante oggi, quando ci poniamo di fronte a proposte come quella dell’Agcom (ossia l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni), la quale ha apprestato le “Linee guida”, stabilendo che dal 2025 l’accesso ai siti di natura pornografica, di scommesse e d’azzardo potrà avvenire tramite lo Spid, o la Cie (Carta d’identità elettronica), oppure attraverso software installati su smartphone o pc ovvero via Internet. L’idea alla base del provvedimento, ossia assicurarsi che solo i maggiorenni possano entrare in contatto con “materiale sensibile e dannoso” per chi si trova ancora in una fase di crescita, è indubbiamente nobile. Tuttavia, la misura proposta, che non impone, come detto, l’uso dello Spid ma richiede che i fornitori di contenuti per adulti adottino strumenti efficaci per verificare l’età degli utenti, lascia spazio a diverse preoccupazioni. L’uso di un dispositivo come lo Spid, o altri meccanismi di autenticazione digitale, anche se non obbligatorio, introduce il rischio di una sorveglianza più ampia e pervasiva sulla sfera privata.
Il vero nodo critico, come ha insegnato Mandeville, è la pericolosa tentazione di voler regolamentare o moralizzare comportamenti che, seppur discutibili da un punto di vista etico, rientrano comunque nella sfera privata e legale. Anche se l’Agcom assicura che non verranno conservati dati personali, il semplice fatto di richiedere un sistema di autenticazione per accedere a contenuti come la pornografia, le scommesse o il gioco d’azzardo può aprire la strada a un controllo indiretto del comportamento online degli individui. Questo può creare un precedente pericoloso, in cui l’accesso a contenuti legali, ma controversi, potrebbe essere assoggettato a un monitoraggio potenziale, minando il principio fondamentale della libertà individuale.
Da una prospettiva più ampia, una tale regolamentazione deve essere affrontata con grande cautela. Se lo scopo è proteggere i minori, esistono alternative meno invasive, come l’educazione digitale e l’uso di filtri più accessibili ai genitori. L’introduzione di obblighi di autenticazione, soprattutto tramite strumenti legati all’identità digitale, rischia di porre in secondo piano la tutela della privacy e di legittimare una crescente interferenza statale nella vita privata dei cittadini.
Lo stesso Mandeville avrebbe probabilmente visto nell’iniziativa che ci occupa un esempio della medesima ipocrisia che criticava nel XVIII secolo: una società che condanna pubblicamente ciò che in privato continua a praticare. Il suo ammonimento, che tentare di sradicare i vizi umani conduce solo a conseguenze peggiori, rimane valido: “Il mondo è sempre pronto a disapprovare pubblicamente ciò che tutti fanno in privato”, ha scritto; e detto monito ci ricorda che l’eccesso di regolamentazione rischia di creare danni ben più gravi, spingendo gli utenti verso canali meno sicuri o illegali, piuttosto che affrontare la questione in modo realistico e pragmatico.
In definitiva, così come due secoli fa lo studioso olandese ha ammonito contro le ipocrisie del moralismo pubblico e sottolineato che la repressione indiscriminata dei vizi non solo è inutile, ma controproducente, anche oggi dovremmo riflettere sulle conseguenze di un regolamento che, pur con buone intenzioni, rischia di violare la sfera privata dei cittadini. L’accesso a contenuti legali, anche controversi, dovrebbe rimanere una questione di scelta personale, senza l’interferenza dello Stato. Né si deve trasformare lo Spid, da strumento di accesso ai servizi pubblici, in una chiave di sorveglianza della moralità dei singoli. In una società veramente libera, anche se è diventata sempre più digitale, la scelta personale e il rispetto della sfera privata devono rimanere centrali, e qualsiasi tentativo di limitarle deve essere esaminato con estrema attenzione.
Aggiornato il 18 ottobre 2024 alle ore 11:10