“Cultura”, una parola estremamente evanescente che contiene in sé innumerevoli significati e che pertanto non può essere univocamente risolta in uno solo di essi.
La “cultura”, ovvero quell’insieme di “conoscenza”, “sapere”, “sapienza”, “levatura” è anche fatta di eleganza e di stile, e anche di classe. Già lo sapevano i nostri amati filosofi greci e poi latini, che il “sapere” comporta grandi responsabilità e che una cosa bella deve essere anche buona e ancor di più che l’estetica senza un’etica diviene vuota apparenza. Chi si occupa di cultura queste basi fondanti non deve dimenticarle mai, o almeno non dovrebbe... ma si sa, l’“uomo è poco” per dirla con Filippo Neri, la “carne è debole” e siamo tutti caduchi.
In certi casi l’essere uomini di cultura, intellettuali, artisti, scrittori, musicisti, comporta innanzitutto un sentimento di sincera pietà, compassione e misericordia per chi inciampando nel più fragile dei peccati, cade. Insomma, bisogna saper perdonare, in senso dantesco, “amor che nulla amato amar perdona”, e lo sappiamo tutti che il padre Dante era di destra. Si perdoni dunque l’errore, s’interceda per la grazia del peccatore dunque, ma non ci si ostini a sbagliare perseverando in scelte che si rivelerebbero ancora più fallaci, perché, come ogni buon cristiano ben sa, perseverare nel fallo è sempre atto diabolico.
Vero è anche come cantavano li buoni frati del famoso amaro televisivo del carosello della nostra infanzia, che “Cimabue, Cimabue, fai una cosa e ne sbaglie due”. Qua naturalmente non c’è soltanto il buon frate Cimabue che vede poi sempre l’intervento risanatore del suo Priore, ma c’è una pletora di frati Cipolla, di Calandrini, Buffalmacchi e molte altre figure degne – no, magari lo fossero – del Decameron di Giovanni Boccaccio.
Più le cose cambiano, più restano le stesse, e cos’è cambiato dunque dai tempi di Geoffrey Chaucer e i suoi Racconti di Canterbury ad oggi? O vogliamo rifarci alle più salaci vicende di Pietro Aretino per osservare che siamo sempre gli stessi, come direbbe l’ottimo Vittorio Feltri (e neanche Maurizio Crozza se lo sarebbe aspettato): “Fottuto dalla pucchiacca”. Trovo tutto ciò un meraviglioso affresco postcontemporaneo della fine di un mondo fatto di illusioni e talvolta di eccessiva fiducia in sé stessi, un arazzo che va sfilacciandosi ogni giorno di più diventando un confuso groviglio di fili grigi un tempo multicolori e variopinti.
Viviamo tempi da basso (molto basso) impero e tempi ancora più cupi si addensano mentre qualcuno “fa la storia” senza rendersi conto che è la Storia a fare gli uomini, perché ducunt volentes fata, nolentes trahunt. La storia è una severa maestra, soltanto i migliori e i più amati dagli Dei riescono a tentare i suoi esami e a superarli avendo poco studiato, per gli altri solitamente c’è l’oblio o il Tartaro della sconfitta.
Insomma, non ci resta che osservare il lungo, lento ma inesorabile, crepuscolo di un’umanità italica ma non solo, molto distante da quella di altri tempi dove vivevano eroi, geni incommensurabili e santi... non abbiamo più neanche navigatori...
Aggiornato il 05 settembre 2024 alle ore 11:25