“Il nostro Generale”, il colonnello Di Petrillo ricorda dalla Chiesa

Ricorre oggi, 3 settembre, l’anniversario della morte in un agguato mafioso di Carlo Alberto dalla Chiesa, di sua moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente Domenico Russo, in quella che viene ricordata come la strage di via Carini

Abbiamo chiesto al colonnello Domenico Di Petrillo, già componente del Nucleo speciale antiterrorismo dei carabinieri, un ricordo del generale dalla Chiesa.

Fu proprio il colonnello Di Petrillo, assieme ai suoi uomini, a sgominare la colonna romana delle Brigate rosse. Autore del libro “Il lungo assedio” (edizioni Melampo), Di Petrillo è ancora oggi impegnato nella difesa della memoria storica di quel periodo. Oggi, a distanza di quarantadue anni dall’uccisione del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, ha scritto per L’Opinione.

“Il generale Carlo Alberto dalla Chiesa era un vero comandante di uomini, capace di motivare e guidare la sua gente con il piglio di chi crede realmente in quello che fa – ricorda Di Petrillo – Manifestava un approccio apparentemente burbero ma, in realtà, caratterizzato da fortissimo calore umano e palese condivisione del ruolo e dei rischi che ne derivavano. Sapeva motivare profondamente i suoi uomini, in particolare noi ufficiali che avevamo il compito di declinare sul terreno strategia e azione. Del resto, vivevamo un periodo di estrema emergenza che necessitava di un’azione determinata e continua, superando con grinta le delusioni e non facendosi ammaliare dai successi. Insomma, bisognava andare fino in fondo nel raggiungimento degli obbiettivi prefissati che, in quel caso, implicavano la sicurezza delle libere Istituzioni repubblicane. Ma la sua azione di guida non si sostanziava con la giornaliera somministrazione di istruzioni specifiche – continua – ma piuttosto instillava in tutti noi ufficiali piena libertà di azione senza limiti territoriali o di qualsiasi altra natura, condizionati però dalla responsabilità del ruolo di ciascuno di noi e dal rispetto dello Stato di diritto. Liberi di andare veloci e sicuri nell’affrontare un’emergenza, ma non soli perché la sua presenza e condivisione era assolutamente garantita. Spessissimo, in occasione di importanti arresti o scoperte di covi contenenti materiali interessanti, partecipava direttamente con la sua incombente personalità alle valutazioni e all’elaborazione della strategia conseguente confrontandosi quasi alla pari con noi. Un modo, credo, per farci crescere professionalmente sia come operatori sia come comandanti di uomini. Pur nella tragedia che vivevamo – prosegue Di Petrillo – quel periodo è stato per me come vivere in una primavera di impegno assoluto che giustificava anche l’assenza altrettanto assoluta di una vita privata e familiare. Bisognava fare, ci saremmo riposati ad obbiettivo raggiunto. A questi sentimenti puliti e profondi non corrisponde poi quello che è poi accaduto quando il governo lo ha scientemente inviato a gestire il disastro siciliano senza strumenti reali che gli consentissero di operare, evidentemente per dare in pasto all’opinione pubblica l’invio di un nome illustre e riconosciuto da tutti a gestire una situazione difficile. Insomma, mandato a morire in solitudine istituzionale. Mi torna in mente una sua frase – conclude il colonnello Di Petrillo – che ci disse in occasione di un episodio negativo per la coerenza istituzionale: Siamo strumenti ignari di occulte rapine. Un forte abbraccio, mio comandante”.

Aggiornato il 03 settembre 2024 alle ore 11:11