Un nuovo Piano Marshall per il clima? L’ultimo a formulare la proposta è Brian Deese, direttore del White House National Economic Council tra il 2021 e il 2023 e oggi consigliere della candidata democratica alla presidenza americana, Kamala Harris. Ma l’idea non è nuova: quella del piano per la ricostruzione varato dall’amministrazione Truman dopo la Seconda guerra mondiale è una metafora talmente ricorrente da essere totalmente inflazionata. Per fare solo un esempio, la si è usata di frequente per riferirsi a Next Generation Eu e al Pnrr. In realtà, “Piano Marshall” è solo un altro modo per dire: spesa pubblica copiosa e indiscriminata.
Alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso, Washington decise di stanziare una somma considerevole (13 miliardi di dollari dell’epoca, equivalenti a circa 200 miliardi di oggi) per favorire la ricostruzione di un’Europa devastata dalla guerra. Pesava la memoria del dopoguerra precedente e, in parte, anche la necessità di tracciare la linea che avrebbe diviso in due il continente, con la guerra fredda. Oggi non dobbiamo ricostruire nulla e certamente non siamo di fronte al tentativo di due blocchi ideologicamente contrapposti di attirare nella propria sfera di influenza i paesi neutrali, perlomeno non in campo climatico. Anzi, nel caso del clima più che in altri solo ottusità e allucinazioni ideologiche possono indurre i commentatori a giocare a dividere il mondo in blocchi. Infatti, vista la natura stessa del problema, l’obiettivo dovrebbe essere quello di perseguire il massimo di cooperazione a livello internazionale. E ciò non soltanto perché vi è un ovvio vantaggio nel condividere i risultati della ricerca scientifica e le migliori tecnologie, ma anche e soprattutto perché proprio il presunto rivale strategico (la Cina) è di gran lunga il principale emettitore di Co2 a livello globale. Pensare alle politiche climatiche in funzione anticinese è già condannarle al fallimento.
Ne ha senso pensare che la questione climatica possa essere risolta facendo nuovi sacrifici sull’altare delle due grandi divinità laiche dei nostri tempi: la politica industriale e la spesa pubblica. I principali esempi in tal senso ‒ l’Inflation Reduction Act negli Stati Uniti e il Green Deal in Europa ‒ hanno certamente contribuito alla riduzione delle emissioni, ma l’hanno fatto a un costo sproporzionato. Non solo: la spiccata intonazione protezionistica di queste misure rischia di accrescerne ulteriormente i costi e di frenare l’innovazione tecnologica che dovrebbero spingere ‒ in parte perché rendono più onerosa l’attività economica e in parte perché puntano tutte le fiches su alcune tecnologie specifiche.
Invece di giocare alla guerra (climatica), chi prende sul serio la questione dovrebbe interrogarsi su come favorire l’ingegno umano e l’innovazione nelle tecnologie a basso impatto emissivo. Con meno politica industriale, meno spesa pubblica, meno tabelloni del Risiko e più scambi e integrazione economica.
Aggiornato il 28 agosto 2024 alle ore 14:53