Su La Repubblica dello scorso 21 giugno, Liana Milella ha scritto contro l’iniziativa del procuratore di Avellino Domenico Airoma che, in rappresentanza del “Comitato per l’elezione di Livatino a patrono dei magistrati”, ha inviato a tutti i presidenti delle Corti d’appello italiane e ai procuratori generali la richiesta di aderire alla proposta di eleggere la figura del beato Rosario Livatino – giovane magistrato brutalmente assassinato dalla mafia nelle campagne siciliane nell’estate del 1990 – come patrono delle toghe.
La contrarietà della giornalista si basa su tre motivi principali. Per Milella, Livatino non deve diventare patrono dei magistrati poiché si rischierebbe una schedatura delle toghe che intendessero aderire alla proposta. Inoltre, la magistratura italiana dovrebbe restare libera da ogni appartenenza religiosa, come del resto pretende la recente riforma della separazione delle carriere introdotta per eliminare correnti e ideologie. infine, le toghe italiane dovrebbero riconoscersi, secondo Milella, esclusivamente nella Costituzione che appartiene a tutti, laici e credenti.
Alcune riflessioni critiche rispetto alle considerazioni della giornalista appaiono dunque inevitabili. In primo luogo: Liana Milella non fornisce adeguate spiegazioni sul perché un magistrato odierno dovrebbe poter esercitare le proprie funzioni in base ai propri convincimenti ideologici, quelli che magari lo inducono a riconoscere il figlio di una coppia dello stesso sesso, o lo consigliano di autorizzare l’interruzione volontaria di gravidanza di una minorenne, o lo legittimano a concedere la sospensione dei trattamenti di sostegno vitale di un paziente cronico o terminale, ma, invece, non dovrebbe agire in virtù dei suoi convincimenti religiosi.
Milella, peraltro, con una ristrettissima visione italo-centrica, trascura il fatto che se Livatino diventasse patrono dei magistrati, lo sarebbe di tutti i magistrati del pianeta, perché il cattolicesimo – grazie a Dio – travalica i confini di competenza territoriale delle corti d’appello italiane, così come i confini statali, in quanto la Chiesa – essendo cattolica – è universale e non nazionale. In secondo luogo: le tre obiezioni che Milella muove contro l’iniziativa del suddetto Comitato sono accomunate da un unico fil rouge, cioè quello della visione laicistica della vita, dello Stato, della magistratura. Il laicismo altro non è che la sublimazione ideologica del principio di laicità, principio di laicità che, peraltro, trova nel cristianesimo la sua origine storica e il suo fondamento teorico, come si evince direttamente dal noto passo evangelico di San Luca: “Rendete dunque a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio” (Lc. 20,25).
Ritenere che il magistrato non possa coltivare la sua sfera spirituale non trova nessun riferimento normativo nella Costituzione, che anzi riconosce e tutela il diritto alla libertà di coscienza e di culto di chiunque – magistrati compresi – ma soprattutto rischia di trasformare il magistrato in un mero ingranaggio “automatico” del sistema giudiziario. Da simili errori proprio Livatino aveva messo in guardia, scrivendo, nella celebre conferenza dal titolo “Fede e diritto” del 1986, che “compito del magistrato non deve quindi essere solo quello di rendere concreto nei casi di specie il comando astratto della legge, ma anche di dare alla legge un’anima, tenendo sempre presente che la legge è un mezzo e non un fine. Verità che ritroviamo nelle altre parole che Gesù ebbe a pronunziare quando, secondo Marco, a proposito dello spigolare in giorno di sabato, disse, rivolto ai farisei: il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato”.
In terzo luogo: negare, come fa Milella, la possibilità che Rosario Livatino divenga patrono dei magistrati significa intendere l’ufficio giudiziario come chiuso alla trascendenza, cioè sostanzialmente cieco e sordo alle ragioni della giustizia e della verità, per cui l’interrogativo fondamentale diventa impellente e non ulteriormente rinviabile: a che cosa serve un ordine giudiziario che, privo di umiltà, non si lasci guidare dalla giustizia e dalla verità? La magistratura esercita un potere “tremendo” – per utilizzare la qualificazione usata da Montesquieu – che non può rimanere autoreferenziale, illimitato e assoluto, cioè sciolto da vincoli e limiti. Il primo limite, che la ragione dovrebbe riconoscere, è proprio il limite della trascendenza, cioè la consapevolezza che l’essere umano, tanto l’imputato quanto il magistrato, non è il padrone della vita, della legge e della giustizia.
Il magistrato tanto può essere veicolo di giustizia quanto può e deve riconoscere i propri limiti, come ha insegnato Livatino, soprattutto quelli derivanti dalla certezza che le faccende giudiziarie non possono essere ridotte all’angolo di un’immanenza priva di fondamenti trascendenti. Ecco perché i simboli di giustizia, ecco perché la terzietà del giudice rispetto al coinvolgimento delle parti che potrebbero usare la violenza reciproca per risolvere le controversie, ecco perché i limiti procedurali all’azione penale esercitata dallo Stato, ecco perché la presenza del crocifisso nelle aule dei tribunali: per ricordare, secondo gli insegnamenti di Piero Calamandrei, che l’errore giudiziario è sempre possibile proprio perché il magistrato non è infallibile.
L’infallibilità del magistrato in tanto può acquisire uno spessore in quanto egli si inscriva all’interno dell’orizzonte di senso che soltanto la trascendenza e la fede possono conferirgli. Che le toghe italiane siano più o meno consapevoli di tutto ciò, poco importa, poiché i magistrati credenti aderiranno alla proposta di Livatino come patrono della categoria, mentre i non credenti non aderiranno: ma è proprio e soprattutto per questi ultimi che allora si fa più pressante l’esigenza di un patrono. Specialmente di uno come Livatino, perché costituirebbe il richiamo perenne del magistrato alla sua coscienza, cioè quella che dovrebbe costantemente ricordargli di non essere un dio onnipotente.
Aggiornato il 24 giugno 2024 alle ore 10:47